Il filosofo imbavagliato dal Sessantotto

Teodorico Moretti-Costanzi insegnò a Bologna negli anni della contestazione. E pagò la sua vocazione al misticismo con l'ostile silenzio dell'ideologia imperante. Ora tutte le sue opere tornano in un volume

Il filosofo imbavagliato dal Sessantotto

Immaginatevi un filosofo teoretico che si interroga sui problemi ultimi dell’esistenza, e lo fa cercando di esprimere identità tra cristianesimo e filosofia. Collocatelo nella Bologna degli anni Sessanta e Settanta, dove la chiave di volta della filosofia accademica era il materialismo storico di Marx. Capirete perché la sua figura fosse rimossa, la sua voce zittita e le sue stesse lezioni seguite da un manipolo di devoti che dovevano scontrarsi con la prepotenza, anche fisica, di chi rappresentava l’ideologia dominante. Avrete così un primo quadro di Teodorico Moretti-Costanzi, nato nel 1912 a Pozzuolo (Perugia, e morto a Castiglion del Lago nel giugno 1995) in quella che lui stesso definì «nobile agiata famiglia», con tanto di palazzo avito. Dotato di un’intelligenza vivacissima e di una capacità di studio fuori dal comune, unita a una disciplina ascetica, Moretti-Costanzi non si laurea a Roma «per evitare il magistero di Gentile», bensì a Bologna. La morte precoce della madre, venerata, definisce in lui una tendenza mistica che sarà cifra di tutto il suo pensiero.

Esce in questi giorni da Bompiani, nella collana «Il pensiero occidentale» diretta da Giovanni Reale, l’edizione completa delle Opere di questo filosofo, misconosciuto e rimosso. Si tratta di un volume spaventoso nella mole, 3.040 pagine, di prezzo tuttavia contenuto, 48 euro, curato da due volonterosi, precisi e devoti discepoli del pensatore umbro, Edoardo Mirri e Marco Moschini.
È evidente che un’opera tanto rocciosa non possa essere destinata che a un pubblico di colti, o di acerrimi pensatori nel campo della filosofia teorica, secondo una linea di pensiero che in Moretti-Costanzi manteneva continuità con l’insegnamento di Bernardino Varisco e Pantaleo Carabellese. Ebbene, cerchiamo però di attenerci a un registro divulgativo. Il punto della questione, come testimoniato anche da chi negli anni Settanta frequentava l’ambiente accademico bolognese (per esempio Vittorio Sgarbi), sta nel fatto che a Moretti-Costanzi sia stato negato, e tanto a lungo, il diritto di occupare lo spazio che merita nel campo di studi che gli è stato proprio. Si può dire che il suo pensiero sia nato negli anni cupi della Seconda guerra mondiale, durante i quali scrive L’asceta moderno, figura dal senso ibrido e controverso, uomo «straniero al passato e al futuro non meno che al suo tempo, senza partito e senza patria, inerme e solo, transita come un vagabondo per le vie della terra e se il tumulto che v’imperversa gli si addensa d’attorno con minaccia superlativa, il riparo non ha bisogno di cercarlo lontano, poiché lo ha con sé, nella saggezza, più confortevole di quello che non possano offrire quattro pareti e di un tetto contro la grandine e la tempesta».

Moretti-Costanzi è stato un uomo di fede, lontano dal positivismo e dal razionalismo e dunque da ogni certezza assoluta nella scienza. Ma il continuo bisogno di un altrove metafisico si trova già nelle opere di un filosofo goriziano, Carlo Michelstaedter (anch’egli riscoperto di recente), morto suicida giovanissimo nel 1910 (a ventitrè anni) e che aveva aperto la via verso un allontanamento dall’arida e restrittiva sfera delle scienze matematiche a favore di una riscoperta di una dimensione ascetica trascendente.

Tutta l’attività di pensiero di Moretti-Costanzi, impossibile da riassumere qui anche solo per sommi capi, sembra tendere al superamento delle contraddizioni tra sapere/credere o ragione/fede. E si richiama alla teologia di San Bonaventura e di Sant’Anselmo («Io penso, dunque affermo Dio»). Da qui scaturiscono le torrenziali meditazioni sull’essere e il senso della vita, le considerazioni sul senso della storia, sull’etica e l’estetica, fino alle folgoranti asserzioni: «L’uomo come disgrazia e Dio come fortuna».

Sembra di vederlo, questo studioso, accademico puro, sempre impeccabilmente vestito secondo i canoni di un’eleganza aristocratica démodé e dunque senza tempo, solcare inosservato, o tutt’al più bollato come altezzoso, i corridoi di un’università presidiata dagli aggressivi capipopolo del «tutto e subito», magari gli stessi che poi hanno fatto carriera, sempre sotto copertura politica, nell’attuale circo equestre dei mezzi di comunicazione di massa.

Si prova quasi tenerezza per la prosa a tratti oscura, impenetrabile, come rivolta agli iniziati, di quest’uomo dall’attività febbrile, incurante, ma non certo per superbia, delle mode e dei vezzi del suo tempo. Ogni categoria speculativa è inserita in questa complessa visione che incessantemente riconduce alla filosofia francescana e bonaventuriana. Chi lo conobbe, sostiene che Moretti-Costanzi fosse solito ripetere che non poteva insegnare niente a nessuno, vista la propria pochezza. Ma che se qualcosa poteva essere appreso, doveva essere colto nell’atmosfera di fede nella quale il nostro stesso io, a confronto con gli altri e con il Tu divino (persona e amore allo stesso tempo) rende possibile ogni comprensione della vita.

E per chi proprio non ce la faccia ad avventurarsi nei labirinti delle elucubrazioni teologico-filosofiche, per quanto avvincenti, restano i luoghi che Moretti-Costanzi indica come fondamento della sua esperienza di fede, i luoghi di San Francesco, Santa Chiara e Santa Margherita da Cortona.

E le forme e i colori della natura umbro-toscana, da Assisi al lago Trasimeno. Qualcosa che il filosofo chiamava la «ambientabilità» della santità. Luoghi di ascesi, di trascendenza, di un altissimo ritrovamento di sé.

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