nostro inviato a Treviso
Onore a una categoria coraggiosa, quella degli artigiani di Treviso, additati dai quaquaraquà dItalia come i re degli evasori fiscali, che invece ti sorprendono convocando un vertice assieme alla Guardia di finanza. Un incontro tra apparenti nemici dove emerge collaborazione reciproca perché lavversario, da queste parti, non ha laccento veneto e il calice di prosecco in mano ma gli occhi a mandorla e unincrollabile capacità di lavoro. I cinesi. Lo spauracchio dei piccoli imprenditori. «Quarantanni fa eravamo noi i cinesi», riconosce Giuliano Secco, presidente veneto dei tessili di Confartigianato. Ma oggi i cinesi proliferano grazie agli italiani.
Sbagliato pensare che nel cuore del Nordest stia covando una rivolta etnica contro i laboratori stipati di orientali. Mario Pozza, presidente di Confartigianato Treviso e capofila di tante battaglie contro le vessazioni fiscali (è lavversario più tenace degli studi di settore), è quasi più arrabbiato con i colleghi italiani. Perché la realtà della manifattura tessile supera ogni fantasia. È finito il tempo in cui i cinesi imbarcano clandestini, li sfruttano, producono merce contraffatta da vendere nei mercatini, sui marciapiedi o sulle spiagge. Oggi funziona diversamente, come spiega il comandante provinciale della Guardia di finanza di Treviso, colonnello Claudio Pascucci: «I laboratori cinesi hanno partita Iva, sono registrati alla Camera di commercio e iscritti al Registro del commercio, pagano commercialisti, fanno leasing. Limmagine del cinese che compra negozi con i contanti nella valigetta è scomparsa, come pure i laboratori clandestini sotto terra. Anche loro patiscono la crisi: nei nostri blitz più recenti metà delle macchine per cucire era ferma».
Tutto qua lorco orientale? Dovè tutta questa minaccia? Risponde Pozza: «Questi stanno ai telai 24 ore al giorno come un pronto soccorso, mangiano e dormono dove lavorano, campano per lavorare. Si accontentano di quattro soldi come paga. Producono a cottimo. Fanno gli schiavi e non si lamentano. E ci mettono fuori mercato». Aggiunge il colonnello Pascucci: «Anche la manodopera cinese si è evoluta. Vivono in condizioni disumane, ho visto cose che credevo impossibili nellItalia di oggi, sporcizia, sovraffollamento, assenza di igiene. Ma reati gravi non ne compiono. Evadono le tasse attraverso il sistema delle fatture false, non versano i contributi ai lavoratori, non rispettano le norme di sicurezza. Reati punibili con qualche migliaio di euro di multa. Loro pagano, magari chiudono lazienda e dopo una settimana la riaprono in una provincia vicina con un altro prestanome pulito. Non hanno un patrimonio aggredibile in Italia perché sono tra le etnie che mandano più denaro in patria: investono direttamente in Cina». Abili e sfuggenti.
Ma negli ultimi anni cè un fenomeno nuovo. Di cui i cinesi non sono i capofila ma il terminale. Alla testa, concordano artigiani e finanzieri, stanno le «griffe» della moda, gli alfieri del «made in Italy», unItaly che vira verso il giallo. La catena parte da certi grandi marchi che affidano agli artigiani la produzione di capi di abbigliamento o calzature: sottoscrivono contratti inattaccabili in base ai quali i contoterzisti devono fornire uno stock di prodotti a un certo prezzo entro un certo tempo. I terzisti, che non possono produrre a quelle condizioni, subappaltano ai cinesi. I quali invece garantiscono prezzi e consegne. E sfornano articoli autentici, non contraffatti, perché è il marchio capofila a fornire etichette, stoffa o pelle. Ecco i furbetti, anzi i furboni, del vestitino. «Le grandi firme pretendono confezioni a prezzi irrisori - denuncia Secco -, gli artigiani o accettano di lavorare in perdita o si affidano ai cinesi».
Il circolo vizioso sembra senza uscita. Le stesse Fiamme gialle non nascondono di trovarsi in difficoltà. I contratti di fornitura sono a prova di bomba. I cinesi commettono reati puniti con piccole pene, in grado tuttavia di falsare la concorrenza e mandare in rovina i produttori italiani che rispettano le regole.
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