Roma - Ci risiamo. Sala Tatarella blindata e cronisti tenuti a debita distanza, stoppati ai piani inferiori. Non sarà mica per evitare la conta reale dei finiani, tra chi c’è e chi non c’è, alla riunione-fiume a porte chiuse? Interrogativo maligno ma legittimo, dato che ognuno è così titolato a dare i numeri. E allora: «Eravamo cinquanta», assicurano alcuni fedelissimi. «Siamo scesi a quaranta», spiega però un collega di corrente, «perché alcuni sono andati via dopo aver preso la parola». Sarà. Ma c’è pure chi racconta quanto segue: «I presenti erano una trentina, perché è lunedì, non c’erano lavori d’Aula e in molti avevano già comunicato la loro assenza. E poi, l’incontro era informale, senza documenti da firmare, come avvenuto la settimana scorsa». Eccetera, eccetera. Alla fine - riferiscono - erano un po’ meno di trenta.
In ogni caso, il dato certo è che Gianfranco Fini inizia a perdere pezzi. Si sfila ad esempio Amedeo Laboccetta, che comunica al presidente della Camera - «con chiarezza e lealtà» - in un lungo colloquio che precede la riunione pomeridiana della corrente, i motivi del suo niet. «Resto amico di Fini, ma non condivido la sua posizione - spiega il deputato campano, conversando nel cortile di Montecitorio dopo il «cordiale» vis-à-vis -. Non è possibile restare con lui, visto che credo ancora in una riconciliazione con Berlusconi, a meno che non si sia già deciso di vivere da separati in casa». Perché «come si farà, quando nei prossimi giorni si chiameranno gli amministratori locali a scegliere tra due linee politiche?», si domanda il parlamentare, qualora si arrivi ad una strutturazione territoriale della minoranza Pdl (ipotesi al momento scartata da Fini, che invita a seguire semmai un «modello arcipelago, piuttosto che una gerarchizzazione»).
Ma Laboccetta continua: gli aspetti di dissenso sono pure legati a «questionispecifiche». Cioè, «come faccio a far parte di una componente organizzata, se non credo nelle correnti e se le mie posizioni su giustizia, immigrazione e temi etici, mi portano da un’altra parte?». Sul primo punto, non a caso, consegna a Fini due sue proposte di legge: una verte sulla responsabilità dei magistrati, perché «chi sbaglia paga, anche se porta la toga». Ma a menare le danze - durante la riunione in cui si registrano pure i mugugni per la gestione di «rottura», portata avanti in primis da Italo Bocchino - è anche Roberto Menia, che chiede lumi su una «strategia» quantomeno ondivaga. «Dopo l’atto di fedeltà, vorrei capire dove si va a sbattere», è la premessa del sottosegretario all’Ambiente, argomentando poi così: «In una settimana siamo passati da ipotesi di gruppi autonomi ad una non definita area di minoranza», con un «palese rinculo» dell’arma politica messa sul tavolo.
«Fini, da leader di An è diventato capo di una piccola minoranza: ne valeva la pena?», s’interroga Menia, lesto a chiedere che siano «licenziati» coloro che «parlano di governi tecnici», mentre noi «siamo leali al governo e non ribaltonisti». All’indice, per capirci, finisce Alessandro Campi, direttore scientifico di FareFuturo. Processo a porte chiuse, dunque, in cui il leader però continua ad invocare il «calma e gesso». D’altronde, «non voglio un Pdl nel Pdl», ripete Fini, che spiega: «Sono qui per ascoltarvi, per sapere cosa ne pensate e per far capire a chi va in tv, o fa dichiarazioni, che il nostro comportamento è di assoluta lealtà nei confronti del governo e della maggioranza. E di massimo rispetto del programma sottoscritto dagli elettori, che deve rimanere un punto fermo in assoluto». Comunicare in maniera univoca, quindi, evitando pericolose distonie o trappole, è una delle linee guida impartite dall’ex leader di An.
Pronto, tra un intervento e l’altro dei suoi, a lanciare una proposta: «Facciamo un seminario, un convegno per illustrare le nostre proposte per un Pdl più forte». Una sorta di piattaforma politica, che potrebbe tenersi venerdì 14 maggio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.