Caro Granzotto, lo ammetta: Fini lha sorpresa. Non se laspettava, dalla terza carica dello Stato aspirante alla prima, quel linguaggio. Sbaglio?
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Prima ancora della parolaccia, vogliamo, caro Solengo, parlare dei jeans indossati dal presidente della Camera nel corso del suo show a Torpignattara? Lineleganza giacchettine, polsini, chiusi dai gemelli, che spuntano di mezzo metro dalla manica, le scarpe a punta, le cravatte fluorescenti di Fini è nota e assodata. Se ce nè rimasto uno, «luomo Facis» è lui. Quando poi gli salta in zucca di conciarsi in modo informale, egli tocca i vertici dellazzimata burinaggine. Lei, caro Solengo, ricorda certamente Un americano a Roma e lepisodio della vestizione «da americano del Kansas City» di Sordi, in procinto di recarsi a casa di Molly, la pittrice statunitense incontrata al bar. Bene, lidea che Nando Mericoni aveva del guardaroba «americano» fa il paio con quella che Gianfranco Fini ha di un guardaroba scanzonato. Jeans - tagliati però come normali pantaloni, jeans finti, insomma -, solita giacchetta «ministeriale» e cravattona alla Felice Caccamo. Una macchietta. Nel catalogo dei viventi, a vestirsi in tal modo (con jeans che siano jeans, però, e senza la cravattona) e apparire elegante ci riesce solo Jas Gawronsky. Servono uso di mondo e physique du rôle, cose che Fini non sa nemmeno dove stiano di casa. E veniamo alla parolaccia: sulle labbra di un presidente della Camera (ancorché impannucciato come un provinciale il dì di festa), è gratuita volgarità. Pronunciata per mostrarsi alla mano, per adeguare il linguaggio allabbigliamento «cafonal» (stando però bene attento e siamo ai vertici del cattivo gusto - a esprimersi in terza persona e con i pennacchi: «Il presidente della Camera parla come voi...»).
Cosa dire, poi, dellinterdetto lanciato alle persone stupide e odiose - concetto sintetizzato nella parolaccia in questione - che ritengono «diversi» gli stranieri. Ma perché, sono forse uguali? Non sa, il Fini, che lOnu ha proclamato il «diritto alla diversità»? E che lUnesco sancì la diversità «patrimonio comune dellumanità»? Aggiungendo (articolo 4) che «la difesa della diversità è un imperativo etico, inseparabile dal rispetto per la dignità umana»? Concetti tronfi ma ovvi perché la diversità, ciò per cui una cosa è diversa dallaltra, è un reale dato di fatto, mica fantasia di una mente malata, come almanacca il presidente della Camera. Sussiste dunque, carta dellOnu canta, anche la diversità fra me e un gentile ospite islamico. Diversità grandi e piccole: io gradisco il prosciutto e la salsiccia di Bra, lui no. Per lui è buono e giusto lapidare le adultere, per me no. Il mio giorno di riposo è la domenica, il suo il venerdì. Lui ritiene sia doveroso sgozzare una figlia che vuole vivere alloccidentale, io mi limito a prendere a pernacchie loccidentale che vuole vivere alla beduina. Il suo paradiso pullula di urì, giovani vergini ai comodi dei bravi credenti una volta trapassati, nel mio niente di tutto ciò e ci mancherebbe altro. Il catalogo delle differenze, che può valere anche per un marocchino, per un nigeriano, per un albanese, per un lituano o un tedesco, è più lungo di un editoriale di Eugenio Scalfari e dunque cosa gli salta in mente a Gianfranco Fini di negarle? Capisco ma condanno con tutte le mie forze il relativismo, tuttavia, come dicono i bravi piemontesi, esageruma nen, non esageriamo. Che poi con il «diverso» si debba convivere, è scritto nelle stelle. Ma sono libero di non amarlo, se ho buone ragioni per farlo.
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