Fini a Maroni: «No ai presidi spia» È polemica sui clandestini in classe

Dopo i medici spia, sono i presidi spia a creare scompiglio. Un’altra norma per contrastare l’immigrazione clandestina che rischia di portare, sul piano politico, a uno scontro fra Pdl e Lega, nel giorno in cui il ddl sicurezza finisce a Montecitorio. Sul piano pratico, per la maggioranza gli esiti potrebbero essere simili al pasticcio che ha portato alla liberazione, in questi giorni, di più di mille irregolari dai centri di identificazione ed espulsione. Tanto è vero che sul disegno di legge il Carroccio insiste per il voto di fiducia: fra gli articoli considerati fondamentali c’è quello anti racket, per cui nessun imprenditore che abbia subito un’estorsione senza denunciarla potrà partecipare a gare d’appalto pubbliche. Un articolo modificato al Senato e che la Lega punta a ripristinare.
Ma ieri a tenere banco è stato l’articolo sui «presidi spia». A sollevare il problema, alla vigilia dell’esame in Aula, è stato Gianfranco Fini, con una lettera al collega Maroni. Fini spiega al ministro dell’Interno che considera negativamente l’ipotesi che nel disegno di legge rimanga la norma che, di fatto, permetterebbe di negare l’iscrizione dei minori clandestini alle scuole dell’obbligo. Un articolo secondo cui l’immigrato dovrà presentare il permesso di soggiorno per avere diritto anche all’iscrizione a scuola, come ad altre prestazioni pubbliche. Se il permesso non c’è, scatta l’obbligo di denuncia perché la clandestinità diventa reato.
Ma, secondo Fini, proprio quest’articolo andrebbe a negare il diritto all’istruzione: un diritto che, spiega, oggi «è tutelato indipendentemente dalla regolarità della posizione in ordine al loro soggiorno». Quindi anche per i bambini stranieri, e non importa se la mamma e il papà siano clandestini. Fini ha sottolineato, a questo proposito, anche eventuali problemi di costituzionalità, oltre al fatto che in Europa non ci sarebbe «alcuna normativa che discrimina il diritto allo studio da parte dei minori stranieri».
E, in effetti, anche nei Paesi dove la clandestinità è reato non c’è una legge che vieti l’accoglienza dei figli di irregolari nelle scuole. Ma, di fatto, l’impasse italiano sembra replicarsi anche all’estero: il cittadino che manda a scuola il figlio deve presentare alcuni documenti, previsti dalla legge; il clandestino non può essere in possesso di questi documenti, ma i suoi figli andranno comunque a lezione, perché difficilmente un preside non chiuderà un occhio o due. Cioè: il diritto all’istruzione prevale, anche di fronte a legislazioni che vorrebbero essere severe sull’immigrazione irregolare, anzi, che in alcuni casi sono estremamente rigide. Si prenda l’esempio della Gran Bretagna, dove la clandestinità è un reato fin dal 1971 ed è punito con la galera fino a sei mesi e multe fino a 5mila sterline. E dove la legge non pone limiti alla detenzione, nel caso in cui non si riesca ad arrivare all’espulsione: quindi, per gli irregolari, i centri di permanenza temporanea possono teoricamente trasformarsi in un carcere perenne. In Italia, invece, la nuova norma sui Cie, i centri di identificazione ed espulsione, prevede il prolungamento del periodo di permanenza per i clandestini da due a sei mesi: un articolo a cui la Lega tiene moltissimo, ma che è stato già bocciato due volte, alla Camera e al Senato, col voto segreto, ed è anche per questo che il Carroccio insiste per il voto di fiducia. La legge inglese, quindi, è molto più severa di quella italiana. Eppure anche Oltremanica la realtà quotidiana delle aule è chiara, nella sua ambivalenza: i figli degli irregolari vanno regolarmente a scuola. Tanto che il sindaco di Londra si è lamentato per il carico (finanziario) sopportato dalla capitale.
In Francia non c’è meno confusione: chi non ha il permesso di soggiorno rischia il carcere, ma la legge non esclude i bambini dalle aule di scuola. Tanto che, lo scorso anno, ad alcune famiglie fu «ritardata» l’espulsione per consentire ai loro figli di concludere l’anno. Allo stesso tempo, la polizia ha l’autorità per indagare nelle scuole e scovare, eventualmente, irregolarità. Che però sono attribuite tutte agli adulti e, quindi, non possono toccare il diritto del ragazzo all’istruzione. Anzi, nelle circolari del ministero viene consigliato di valorizzare, come elemento determinante nel regolarizzare gli immigrati, il fatto che i figli vadano a scuola. «Alla fine, nell’ambivalenza, prevale il diritto all’istruzione», spiega Ennio Codini, responsabile diritto dell’Ismu, la fondazione di Iniziative e studi sulla multietnicità. «Anche per la difficoltà materiale, poi, di espellere i minori, queste persone di fatto sono regolarizzate. E poi la scuola, in questi casi, è considerata l’unico fattore possibile di integrazione». Rimangono gli espedienti: l’esclusione da alcuni benefici sociali, come avviene in qualche stato degli Usa, dove ai figli di clandestini sono negate borse di studio o sovvenzioni pubbliche per i college e le università. Ma, anche negli Stati Uniti, si tratta di una tendenza minoritaria: per la Corte suprema lo studente non deve essere punito se i genitori sono entrati illegalmente. Lo stesso succede in Germania, dove gli irregolari rischiano fino a 3 anni in cella e gli enti pubblici sono molto severi nel chiedere certificati e documenti.

I casi concreti esistono ogni giorno, a migliaia, sui banchi di scuola, in Italia e all’estero: la legge sulla sicurezza si scontra con il diritto allo studio, garantito a tutti. Su questo punto, dice Fini, «ho posto un problema a Maroni e aspetto una risposta». Ma forse, il problema, non l’ha posto soltanto a lui.

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