Fioroni, l’ex allievo dc che dice sempre sì per accontentare tutti

E ssendo medico angiologo esperto di tubi organici come vene e arterie, Giuseppe Fioroni è per competenza ministro dell'Istruzione di cui, per l'appunto, capisce un tubo. Qui però subentra la moglie Rosetta la quale è invece insegnante delle magistrali. Quando la sera torna nella propria villa alla periferia di Viterbo, sua città natale, il ministro della Margherita convoca la consorte e insieme pianificano il futuro della scuola. «Tozzi», l'adorato bulldog di casa, si piazza sull’uscio e sorveglia che nessuno disturbi i due cervelli all’opera. Rosetta si limita a un supporto tecnico. Le visioni dall'alto sono invece del marito. Quali siano, è presto detto.
Beppe Fioroni è un dc integrale. Nonostante la giovane età, 48 anni, ha la testa rivolta alla democristianeria della prima Repubblica. Si potrebbe definirlo un reperto, se non fosse che incarna la democristianità senza tempo. È un Mariano Rumor del XXI secolo, bonario e rotondetto come l'antenato. È rassicurante, dà ragione a tutti, finge di fare e non fa. A Viterbo gli hanno dato un soprannome che lo dipinge: Beppe Bucìa (bugia, nel romanesco dell'Alto Lazio). Bugiardo per amore di pace, per non essere brusco, per farti contento. Alla paciocconeria deve pure l'altrimenti inspiegabile poltrona dell'Istruzione. Dopo cinque anni di Letizia Moratti, rigida e intrattabile, era necessario uno che blandisse dirigenza e sindacati. È anche il motivo per il quale Bucìa è stato preferito alla collega di partito, la più puntuta Rosy Bindi cui il ministero sembrava originariamente destinato.
Appena approdato nel falansterio di Viale Trastevere, Beppe ha enunciato il programma: smantellare le riforme di Donna Letizia. Ha iniziato dal nome del ministero. La Moratti aveva innovato chiamandolo dell'Istruzione senza aggettivi. Bucìa è tornato all'antica denominazione, «Pubblica Istruzione», per sottolinearne la statualità. Poi si è inginocchiato davanti ai sindacati e ha governato sotto dettatura.
La Moratti aveva introdotto nella scuola il «tutor», un super maestro che coordina il lavoro degli altri. I sindacalisti non hanno mai digerito il tutor, considerandolo emblema di gerarchia e antidemocraticità. Beppe li ha ricevuti, ne ha ascoltato le lamentele, si è commosso e ha buttato a mare il tutor. «Simpatico il ministro», si sono detti i sindacati e sono tornati alla carica con le commissioni per l'esame di maturità. La Moratti, chissà perché, aveva stabilito che le commissioni d'esame dovessero essere formate solo da professori interni alla scuola. I sindacati hanno assunto un'aria grave e si sono eretti a paladini degli studi severi dei tempi andati. «La scuola non è un esamificio», hanno tuonato esigendo il ritorno alle commissioni formate da docenti che vengono da fuori. Bucìa ha finto di credere alla purezza delle loro intenzioni e ha ripristinato per l'esame di maturità le vecchie commissione esterne. La faccenda in realtà è una questione di vile denaro: col ritorno alle commissioni esterne torna anche la diaria per gli esaminatori che vengono da fuori. Un gruzzoletto niente male che la Moratti, sempre insensibile ai bisogni del popolo, aveva tirannicamente abolito.
Dopo avere obbedito ai sindacati, il neoministro si è piegato agli studenti più esagitati che occupano le scuole. Il rito, che si rinnova ogni anno dal ’68, si è ripetuto nei giorni scorsi al liceo romano «Tasso». Quattro gatti hanno sbarrato la scuola a un migliaio di altri studenti. Preside e professori li hanno condannati e isolati. Bucìa ha fatto invece quello che nessun ministro aveva fatto mai. È andato al «Tasso» e si è intrattenuto a cordiale colloquio con gli occupatori. I ragazzi hanno dettato le condizioni per togliere l'assedio, Beppe Bucìa le ha accettate e le barricate sono state tolte. «In attesa che il ministro esegua quanto concordato», hanno precisato i giovanetti col tono di chi tratta da potenza a potenza. I docenti si sono inviperiti. Trenta di loro hanno inviato al ministro una lettera di fuoco dicendogli che aveva fatto una cretinata appena giustificabile con la sua «inesperienza». «Il corpo docente - hanno scritto - è stato del tutto ignorato come ignorate sono state le richieste di un migliaio di studenti» contrari all'occupazione. «Ha delegittimato noi e legittimato i prepotenti», hanno concluso. Un passo falso in piena regola. Con la sua mania di fare il buono, Beppe annulla i valori e mette sullo stesso piano il mite e il bullo.
Inaugurando in settembre l'anno scolastico in un istituto della periferia romana, Bucìa non ha parlato di studi, di profitto e altre banalità, ma di solidarietà e amore del prossimo. Edificati dal discorso un gruppo di rom lo ha festeggiato con una danza del ventre. Il ministro se ne è andato commosso con la coscienza di avere dato un fondamentale contributo all'integrazione. Con lo stesso intento, è a favore dei corsi di Corano. A chi gli contesta la pletora nazionale di docenti, 950mila per 8,7 milioni di alunni, con un rapporto di 9,1 contro il 13-14 del resto d'Europa, Beppe risponde secco: «L'Italia è per metà montagna con numerosi villaggi isolati». E aggiunge ispirato: «Se chiudessi delle classi e diminuissi gli insegnanti, sceglierei il modello Heidi che tutte le mattine si alza alle quattro per andare a scuola accompagnata dal nonno, in mezzo alle intemperie con enormi rischi». Maestro nelle chiacchiere dolci, il ministro è un pianto nelle decisioni dure. Dilaga, ormai anche in Italia, il bullismo scolastico. I tredici-quindicenni che stuprano, spinellano e umiliano i professori sono legione. Il primo passo sarebbe un circolare ministeriale che detti sanzioni per i teppistelli. Ma affrontare le cose di petto non è da lui e Beppe tergiversa. Dice che farà e non fa. Anzi, scarica sugli altri. Nel caso in specie, ha dato la colpa alla tv e all’esibizionismo dei reality show. Sono i limiti della democristianità.
Bucìa è la gloria di Viterbo. È il primo ministro che la città produce dal tempo degli Etruschi. L'origine provinciale e piccolo borghese sono gli ingredienti che fanno di Fioroni un galantuomo. Il babbo era un macellaio con bottega nel quartiere popolare di Pianoscarano dove abitava la famiglia. Il modesto appartamento dell'infanzia è oggi appannaggio della mamma vedova. Beppe si è invece trasferito in una villa alle pendici dei Monti Cimini, con Rosetta, il bulldog «Tozzi» e il figlio Marco. Il ragazzo frequenta la stessa scuola dei preti del padre, lo Scientifico «Ragonesi». Bucìa ha trascorso l'intera gioventù in ambiente talare. Col pannolone già frequentava la parrocchia di Sant'Andrea. Coi calzoncini corti diventò scout, campeggiando tra le faggete del Lago di Vico. Coi knickerbocker, entrò nel movimento giovanile della Dc, partito egemone di Viterbo per decenni. Giunto all’età adulta, Beppe si bardò di giacca e cravatta e nessuno lo ha mai visto vestito in altro modo. Predilige il blu e il grigio. D’aspetto, sembrava vecchio anche da giovane. Lo stesso di testa: era diligente, preciso, lavoratore. Si laureò in Medicina, entrando nell'equipe del Policlinico cattolico Gemelli. Era però dello staff solo sulla carta. Assorbito dalla vita di partito, trascurava l’ospedale. La passione politica prevaleva di gran lunga su quella terapeutica. Infatti, mentre un medico tende a vedere in ogni uomo un paziente, il dottor Fioroni vedeva in ogni concittadino un voto. Cercò perciò di rendersi gradito. Quando incontrava un voto per la strada, gli diceva con deferenza: «Maestro!» e si inchinava. Beppe è, politicamente, una creatura di Rodolfo Giglio, plenipotenziario cittadino di Andreotti. Oggi, che è a sinistra, tende a nascondere questa paternità. «Mi sono fatto da me», dice. Ma il vecchio Giglio gli ricorda implacabilmente il passato. «Il mio Beppe? Un bravo ragazzo», ha detto nella più recente intervista.
A 31 anni, Fioroni fu eletto primo cittadino. Il sindaco più giovane d'Italia di un città capoluogo. Occupò la poltrona dall’89 al ’95. Divenne Beppe Bucìa per la debolezza di promettere senza mantenere. Un altro soprannome era Cicciobello, sulla falsariga di Rutelli avendo come lui il gusto di piacere. Per ricevere i clientes, saltava il pranzo e si rimpinzava di pasticcini. Dolci e cioccolato sono la sua debolezza e la causa della sua pinguedine da agiato.
Scaduto il mandato, si ricandidò. Erano però tempi bui per la Dc-Ppi, divisa tra la sinistra di Martinazzoli e il centro di Buttiglione. Beppe, prudente non si schierò, fino al voto. Fu però trombato, arrivando terzo. Fulmineo, prima del ballottaggio tra gli altri due, si buttò a sinistra appoggiando il candidato Ds contro quello di An. A questo punto, contro tutto se stesso, ma per la ragion politica, comincia la sua marcia di cattolico di sinistra. Gli toccò, tuttavia, un anno di purgatorio: la morte nel cuore, piangente e disperato, tornò al Gemelli a fare l'angiologo.
Nel '96, fu eletto a Montecitorio con la Margherita. All’inizio si legò (politicamente) a Rosy Bindi, ministro della Sanità. Tanto la imbambolò che ottenne, cosa strabiliante per un peone di primo pelo, un consistente finanziamento per l'Ospedale «Belcolle» di Viterbo. «Gliel'ho dovuto concedere per levarmelo di torno», confessò la Bindi alzando gli occhi al cielo. Beppe infatti è uno di quelli che, fin quando non ottiene, ti martirizza. Ti si accoda, manda bigliettini, telefona. Chiama anche venti volte e ripete ossessivo: «Tocca farlo!».
Oggi, Fioroni è ai vertici della Margherita. È il suo uomo di punta per bioetica, eutanasia, pacs.

Dall'orbita di Rosy Bindi è passato a quella di Franco Marini, che gli è psicologicamente gemello: morbido, tergiversatore, pescebarilesco. Le tre virtù che lo hanno fatto ministro.
Da quando lo è diventato, i viterbesi hanno smesso per deferenza di chiamarlo Beppe Bucìa e lo hanno promosso per tacito accordo, Giuseppe Menzogna.

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