Le firme dei genovesi contano solo se non chiedono «via Quattrocchi»

Il Comune fa sottoscrivere il referendum anti devoluzione ma dimentica il «suo» Fabrizio

Le firme dei genovesi contano solo se non chiedono «via Quattrocchi»

(...) insegnato al mondo l’orgoglio di un italiano. A Genova tutto ciò non c’è. Se non cambia qualcosa, non ci sarà neppure in futuro. Perché dopo aver rinviato e offeso le richieste formali dell’opposizione per l’intitolazione di uno spazio pubblico al bodyguard genovese, il presidente del consiglio comunale, Emanuele Guastavino continua a non ritenere importante inserire la questione all’ordine del giorno. Ci sono cose più interessanti a cui pensare, argomenti di ben più vitale importanza per la città da dibattere. Ora, ad esempio, per il Comune l’obiettivo principale è quello di raccogliere firme per abrogare la devolution. E pazienza se oggi Giuseppe Costa, capogruppo di Forza Italia, presenterà una mozione per dedicare a Quattrocchi una via come, giustamente, è stato fatto per Guido Rossa, entrambi «lavoratori vittime di terroristi».
Basta dare un’occhiata alle convocazioni del consiglio comunale di oggi o ai comunicati stampa che arrivano da palazzo Tursi per capire quale sia l’attività amministrativa che la maggioranza reputa degna del maggior impegno. Le mozioni che verranno discusse oggi pomeriggio in sala rossa al posto di quella di Gianni Bernabò Brea che da venti mesi attende di sapere se c’è spazio per una «via Quattrocchi» a Genova sono a firma Ds e Margherita. E soprattutto trattano di «garanzie per la corretta applicazione della legge 194» o di «cultura della maternità». Questioni che sono tutto fuorché di competenza comunale, ma senza le quali i genovesi non possono andare avanti. Lasciando piuttosto a Vittorio Sgarbi la seccatura di dire, in una trasmissione seguitissima in tutta Italia come «Il senso della vita» condotta da Paolo Bonolis e in onda questa sera, che «Quattrocchi è un martire cristiano davanti a dei “maiali” che hanno tentato di cancellarne persino la memoria».
C’è poi il caso del referendum anti devolution, che evidentemente sta particolarmente a cuore al Comune di Genova. Perché l’ufficio stampa di Tursi sta diffondendo notizie sulla «raccolta delle sottoscrizioni per la proposta di referendum» per abrogare la legge costituzionale che introduce la svolta federalista nell’amministrazione dello Stato. Un’attività tutta politica, di parte, oltre che assolutamente inutile. Politica in quanto non è assegnato ai Comuni alcun ruolo nella richiesta o nell’indizione del referendum. Di parte, in quanto va contro una scelta da poco fatta a maggioranza dal parlamento e non a caso contestata dal centro sinistra. Assolutamente inutile in quanto il referendum intanto si farà comunque perché delle tre possibili strade da seguire per indirlo, due sono assai più agevoli o comunque già percorse con successo dalla sinistra. Basta infatti che a chiedere la consultazione popolare siano un quinto dei parlamentari di Camera e Senato (numeri che l’opposizione ha in abbondanza), oppure 5 consigli regionali di un’Italia amministrata in larghissima parte dal centro sinistra.
Eppure il Comune di Genova si affanna a far sapere che, per raggiungere il tetto delle 500mila firme (terza soluzione, la più lunga e dispendiosa), ci sono tanti uffici di Tursi a disposizione. La segreteria generale, l’ufficio elettorale, le sedi delle circoscrizioni, gli uffici di dodici delegazioni e di due centri anagrafe decentrati sono pronti a ricevere i cittadini. E il comunicato è precisissimo su orari, indirizzi, giorni della settimana. Un Comune più attivista che attivo in una situazione che, per quanto riguarda le mansioni riconosciute all’ente, non è diversa da qualsiasi altro referendum popolare per il quale Tursi non si era mai distinto prima d’ora per solerzia.
Ma anche alle firme dei cittadini il Comune di Genova dà pesi diversi a seconda della proposta che intendono portare avanti.

L’impressionante numero di genovesi (circa 1200) che sabato in poche ore dai banchetti di An ha chiesto di dedicare una via a Fabrizio Quattrocchi non conta. Almeno non quanto qualche centinaio di persone che da qui al 7 febbraio farà sapere di essere in disaccordo con l’idea della devolution. A palazzo Tursi la chiamano democrazia.

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