Fischi, applausi, pistole Il jazz è avventura: parola di Enrico Rava

Nell’estate 1958 un quartetto jazz si esibisce al Cinema Teatro Romano di Torino per celebrare un documentario sulle star del Festival di Newport. Teatro gremito; il pianista scivola e non precipita dal palco solo perché s’aggrappa al suo strumento; deve partire Blues By Five ma gli altri due non sentono il battito del piede e restano fermi; solo il trombettista parte con una stecca colossale «che ancora oggi mi risuona nelle orecchie».
Quel trombettista sfigato è Enrico Rava, uno dei jazzisti oggi più noti e attivi a livello internazionale, che si racconta in Enrico Rava. Incontri con musicisti straordinari. La storia del mio jazz (Feltrinelli, pagg. 252, euro 16), ricordando la Torino della rinascita e l’avanguardia newyorkese, la famiglia (la mamma che suona con sconvolgente disinvoltura partiture di Mozart e Sibelius), gli incontri con Chet Baker e Miles Davis o Gato Barbieri, minacciato con una pistola alla tempia perché non voleva lasciare un appartamento al Village.
Rava sa raccontare quanto improvvisare e le sue storie incrociano quelle del jazz. Passato da autodidatta del trombone («un ferro vecchio arrugginito con cui suonavo tutte le parti di Bix Beiderbecke con Armstrong») a guru della tromba, ha contribuito a cambiare il jazz da musica che faceva ballare mantenendo la sua integrità artistica a un jazz sofisticato, difficile da suonare e da ascoltare e praticamente impossibile da ballare. Rava ha ricevuto gli onori e fatto le spese di una scelta «difficile»; formò un gruppo con Steve Lacy, «ma la nostra era musica per respingere la gente». Lavorò con Roswell Ruud, fu sonoramente fischiato a Bologna con Don Cherry, ma non modificò mai il suo stile, contribuendo ai primi balbettii del nuovo jazz italiano. Lui s’è evoluto rimanendo se stesso, sperimentando a oltranza senza mai rinunciare alla musicalità. Furono le impennate rumoristiche del free a dare il colpo di grazia al gusto dei neri, i quali voltarono le spalle al jazz per dedicarsi al soul di Sam & Dave, James Brown, Aretha Franklin. Il free piaceva ai bianchi, compresi gli intellettuali che lo ascoltavano per snobismo (Rava non fa sconti a nessuno) e in realtà preferirebbero una serata rock.
Dalle pagine si sente palpabile l’amore folle e monotematico di Rava per il jazz. Da Torino nel 1955 la Fiat, con la «600» con le porte che si aprivano controvento, invadeva l’Italia mostrando le grazie delle signorine; l’anno dopo Kruscev denunciava le atrocità di Stalin, s’era sfiorata la Terza Guerra mondiale quando Nasser nazionalizzò il Canale di Suez. Insomma un anno tosto, i cui eventi sparirono dalla memoria di Rava di fronte al concerto di Miles Davis al «Nuovo». «Non immaginavo - ricorda il trombettista - che dal vivo mi avrebbe colpito con la forza di un tornado, quel tempo perfetto, quell’equilibrio tra cuore e intelligenza. Nessuno ha mai suonato le ballad come lui, neanche Chet Baker. Un po’ come quando abbiamo visto per la prima volta Marlon Brando in Fronte del porto. Uno sciamano molto più scuro di come appariva in fotografia». Quel concerto cambiò la vita di Rava e nel giro dei dilettanti torinesi si cominciò a parlare del suo stile davisiano. Session alla va là che vai bene dove si diceva in dialetto: «facciamo un blues in La» e un nuovo trombonista astigiano (lo straordinario Dino Piana) rispondeva: «Coa l’è ’l blues?» per poi sbottare: «A l’è ’ò gir del boogie» e poi via con la musica.
Difficile pensare che da lì Rava abbia attraversato il mondo; New York e gli incontri con Miles e Monk al Village Gate ma anche i concerti alternativi allo Slug’s, dove per entrare bisognava sfidare le facce patibolari degli Hell’s Angels ma ancor di più le pantegane lunghe un metro.

Il Brasile di Veloso, Nascimento e del prodigioso batterista Robertinho, i concerti a Berlino con Cecil Taylor, il «presente appassionante» con quintetto e ottetto (tante giovani scoperte), i duetti con Bollani e Rea. In fondo Rava è ancora uno dei pochi autentici che crede in un futuro esaltante per il jazz, e che è talmente personaggio da meritare una caricatura personalizzata di Fiorello.

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