«Il flop europeo? Colpa di Prodistein Ora basta appelli, ascoltiamo i popoli»

Il vicepremier Tremonti analizza il momento più critico della storia dell’Unione: «I manifesti pro Ue di molti economisti non servono a nulla»

Mario Sechi

da Roma

Sorride. E forse pensa che davvero il detto “il tempo è galantuomo” abbia un senso. Giulio Tremonti ha fatto tappa a Pontida, ha visto Umberto Bossi riabbracciare la sua gente. Quella del Carroccio è una dimensione politica che consente a lui, il professore di Oxford che indossa bretelle e gilet, di capire i sentimenti e gli umori del popolo. È anche per questo che Tremonti ha colto con largo anticipo il tramonto del mito europeista. Le sue considerazioni sull’Europa fino a poco tempo fa erano considerate nel migliore dei casi “inattuali”, oggi invece sono à la page e l’euroretorica è diventata un genere letterario démodé. Le sue idee circolano sempre più frequentemente nei dibattiti del Vecchio Continente. Le hanno rese pubbliche e diffuse presso l’opinione pubblica, nel day after, due prestigiosi quotidiani: la Frankfurter Allgemeine Zeitung e Le Monde, un giornale tedesco e uno francese, uno di destra e uno di sinistra. E non sarà certo un caso che Tremonti sia l’unico politico italiano che abbia mai scritto su quei giornali e di questi argomenti. Come non è un caso che sia stato l’unico italiano invitato a dibattere prima alla Oxford Union Society e dopo alla Cambridge Union Society. E proprio l’Inghilterra sarà la prossima tappa. Mentre calpesta il prato di Pontida, Tremonti già prepara le valigie per Londra, dove ascolterà la conferenza di Gordon Brown, il cancellerie dello scacchiere britannico, sul futuro dell’Europa che Tremonti, in questa intervista al Giornale, descrive mixando la politica e l’economia all’humour.
Onorevole Tremonti, dopo il No di Francia e Olanda alla Costituzione Ue e il fallimento delle trattative sul bilancio europeo in Italia si stanno moltiplicando gli euroscettici. Lei non si sente più solo?
«Fino a qualche settimana fa mi sembrava che la stagione ufficiale fosse quella del Brumaio, lei ora mi dice che siamo al 26 aprile...».
E che succede?
«Evidentemente si stanno formando le nuove liste degli euroscettici composte da postfuturisti, visionari del giorno dopo, europentiti, pensionati prêt à porter, editorialisti illustri. Come accade spesso nella storia del nostro Paese, non c’è la stagione dei pensamenti, ma c’è la stagione dei ri-pensamenti. C’è gente che scrive due editoriali in due giorni, ho letto testi farneticanti, comunque questo è solo l’inizio. Il limite di questa classe dirigente non è tanto di non aver capito prima cosa stava succedendo. Il limite è di volercelo spiegare adesso. Il paradosso di questo Paese è che gli uomini che hanno avuto responsabilità di regime ora maramaldeggiano, mentre gli “euroscettici” restano gli unici euroresponsabili».
Europentiti italiani?
«Sono tanti. Si contano, ripeto, tra editorialisti accademici, accademici editorialisti, pensionati prêt à porter, maestri di vita, futuristi-passatisti, appellatori tardivi».
Faccia qualche nome.
«Guardi, non sarò provinciale. Le farò un nome per tutti, ma un nome straniero: Bolkestein, Frits Bolkestein. È lui il primo dei pentiti. Bolkestein con un mirabile articolo pubblicato sull’International Herald Tribune ha aperto il dibattito sulla Costituzione Ue. Peccato che uno si chieda: ma è un caso di omonimia o è lo stesso Bolkestein Frits che fino a tre mesi fa era membro della commissione? È lo stesso amico Frits che fino a qualche mese fa era l’uomo forte della commissione, autore della direttiva sulla liberalizzazione dei servizi? È lo stesso personaggio surreale delle barzellette popolari in Francia?».
Dopo i no di Francia e Olanda è successo di tutto, perfino il bilancio europeo è stato sospeso. La cosa più allucinante che ha visto?
«La cosa più allucinante non è avere sospeso l’approvazione del bilancio Ue, ma avere sospeso i referendum sulla Costituzione».
Perché?
«Perché i popoli fanno paura. È un provvedimento che non solo è inutile, ma è anche negativo».
Qualcuno ha detto che il vero errore è stato chiamarla Costituzione.
«Questo è il pensiero della scuola dei minimalisti, quelli che riducono tutto a una questione di nome e, in questo caso, dicono che l’errore è stato chiamarla Costituzione. Se il nome non fosse stato Costituzione non sarebbe successo niente. Questo, per esempio, è proprio l’incipit dell’articolo scritto appunto da Bolkestein per l’International Herald Tribune».
È lo stesso Bolkestein, autore della famosa direttiva che ha scatenato le barzellette sull’idraulico polacco...
«Le vignette surreali sulla stampa popolare francese sono micidiali. C’è per esempio quella dei due popolani che stanno al bar e dicono: “La sai l’ultima su Bolkestein?”. Detto questo, il povero Frits non ha tutte le colpe, perché la direttiva non è Bolkestein ma... Prodistein».
Lei dice che c’è lo zampino di Prodi?
«Mi pare che le direttive siano firmate anche dai presidenti di Commissione. E mi sembra che la direttiva fosse l’ultimo fiore all’occhiello della Commissione. Probabilmente hanno fatto confusione, il fiore all’occhiello in realtà era il fiore sulla bara».
Umberto Bossi è tornato a parlare a Pontida. Luogo simbolo per gli euroscettici?
«Sulla carta geografica Pontida è stato il primo punto, ma in realtà tutta la mappa dell’Europa è una specie Pontida. Se uno guarda la carta geografica europea vede svanire i salotti e comparire i popoli. I salotti svaniscono per abbandono dei frequentatori: nessuno c’è mai stato, si cancellano i nomi sui carnet, si perde la memoria, si strizza l’occhio alla Vandea».
Come le è sembrato il discorso di Bossi?
«Oggi era il giorno di Umberto. C’è molta più saggezza e lungimiranza in quello che ha detto e dice Bossi, rispetto a quello che dicono tutti gli altri. La realtà è che i popoli sono scesi in campo e hanno spazzato via tutto il resto. A questo punto, se si vuole il bene dell’Europa, una preghiera: basta con gli appelli di regime. Uno che pensa che il problema si risolva con gli appelli non ha capito nulla».
A proposito di appelli: ne è stato lanciato uno qualche giorno fa da un club di economisti italiani. Pare abbia già raccolto 143 firme. Che ne pensa?
«Considerando i ruoli accademici e la loro latitudine, mi stupirebbe che, al momento in cui le mi sta facendo la domanda, non siano già 243. Per il bene dell’Europa è bene che stiano zitti. Se questa è la medicina, il prossimo referendum chiude con il 243 per cento di No. L’appello dei 143 economisti fa rimpiangere i tecnocrati. Trovo tout court significativo che quell’appello - almeno fino a quest’ora - non sia stato sottoscritto da Tommaso Padoa Schioppa, un economista che ha idee radicalmente diverse dalle mie, ma che è una persona seria. È arrivato il momento della serietà e, ripeto, non trovo serio quell’appello».
I prodotti cinesi hanno invaso il mercato europeo. Lei ha partecipato alla protesta dei calzaturieri a Bruxelles, ma i mercati sotto attacco si moltiplicano. Abbiamo sottovalutato il drago cinese?
«L’Europa ha fatto l’accordo con la Cina nel 2000 e la Cina è entrata nel Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio, ndr) nel 2001. Citerò Marx: “Lo stregone libera forze che non riesce più a dominare”. È stata una follia ideologica aprire il mercato mondiale al commercio».
Lei sta suggerendo di cambiare le regole del Wto?
«Bisogna riaprire quella partita. È fondamentale una riflessione politica. Si sta andando verso un mercatismo suicida e, mi creda, l’Occidente invece ha tutti i margini - nel Wto - per rigovernare questo processo».
E gli Stati Uniti dalla parte di chi staranno?
«L’Europa e l’America, insieme, devono riflettere seriamente su ciò che sta accadendo. E l’Europa deve fare come gli Stati Uniti e varare delle politiche di protezione».
Ma l’Europa in questo momento appare quanto mai divisa e in crisi.
«Il progetto o è europeo o non è. O è forte o non è. Non basta un’aspirina».
Le politiche protezionistiche da sole non bastano. Lei è d’accordo?
«L’imperativo è primum vivere, poi è chiaro che proteggersi è insufficiente, bisogna anche riconvertirsi. Ma riconvertirsi senza proteggersi è impossibile. Nessuno Stato si può proteggere da solo, nessuno Stato si può riconvertire da solo. Serve una riconversione, congiunta, su scala europea».
Prodi le ha rimproverato di aver detto durante una conferenza a Oxford nel 1999 le seguenti parole: «All’euro non vi sono alternative».
«Prodi ha usato un mio dibattito alla Oxford Union Society per dire che io ero pro-euro. È vero che io nel 1999 partecipai a un appuntamento della Oxford Union, ma Prodi ignora completamente che quella non è una sede di conferenze, ma una debating society dove il gioco è di spararla più grossa. Tanto per far intendere di cosa parliamo: la Oxford Union è il luogo dove gli studenti - e così si comprende quanto sia spinto il gioco dialettico - in una disputa votarono contro Churchill a favore di Hitler. Parliamo degli stessi che poi si fecero uccidere dai tedeschi in volo sugli Spitfire. La Oxford Union non è un luogo da conferenza, ma da dibattito e per vincere forzi tutto. È un luogo suggestivo, di grande fascino. Sa chi era il mio avversario in quella disputa dialettica? Il grande scrittore inglese Frederick Forsyth».
Sempre Prodi dice che lei l’8 marzo del 2003 ha detto: «L’operazione di cambio della lira all’euro è andata molto bene».
«Prodi dice che quella frase è del 2003? In realtà è del marzo 2002 e non è sull’Euro, ma sul changeover. La domanda era: è andata bene o male l’operazione? La risposta era: tecnicamente è andata benissimo. E infatti era vero. La risposta era: ho un po’ di nostalgia della lira ma tecnicamente è andata bene.

Bene per lo Stato, ma non tanto bene per l’economia, per le imprese (supervalutazione) e per le famiglie (caos). Prodi può truccare le carte ma la realtà è un’altra. È surreale vedere l’eurovedovo Prodi darmi dell’euro-ottimista quando mi ha sempre dato dell’europessimista».

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