Roma - Sale la nebbia a Monte Mario e la casa di Arnoldo Foà diventa un fortino accogliente, dove lui e Anna Procaccini, la quarta moglie dell’attore-simbolo di ogni nostra buona cosa teatrale, cinematografica, televisiva, doppiata o muta, aspettano il futuro. «Sono un cane d’attore. Come sempre», celia l’artista novantatreenne, che il 24 festeggerà il compleanno con due film in cantiere (uno dei quali, Ce n’è per tutti, prodotto da Anna Falchi e fratello Sauro, con Medusa, Ambra Angiolini e Lorenzo Balducci nel cast), un libro in ristampa (Joanna Luzmarina, Corbo editore) e una serie di letture in giro per l’Italia. La sua voce, del resto, il suo strumento di lavoro più riconoscibile, non risuona scalfita dal tempo, mentre invita a prendere il caffè: non si è brunita, né ottusa, ma tocca ancora le corde del cuore nel cuore.
Maestro, con questa bella voce, com’è che resta muto in «Ce n’è per tutti», il film drammatico di Luciano Melchionna, appena finito di girare, dove fa il nonno?
«L’ho fatto apposta! Siccome la voce è sempre bella... recito con lo sguardo, con la mimica, con il mio corpo (che trovo orrendo, pieno di grinze). Mi limito a fissare quello che accade».
E che cosa accade?
«C’è un ragazzo, in cima al Colosseo, che vuole buttarsi giù. È in crisi, deluso dalla vita. E accanto a me c’è Stefania Sandrelli, la nonna dell’aspirante suicida. Ma lei parla; io, neanche una parola. Registro. Osservo. Taccio».
Ha girato un centinaio di film, spesso con attori giovani o giovanissimi. Che cosa vuol dire, per lei, recitare con colleghi in erba?
«Qualcuno m’indispettisce: i giovani sono spesso supponenti. E allora mi piace dar loro qualche scappellotto. Per aiutarli a crescere, professionalmente».
Anche nel prossimo film di Citto Maselli, «Il fuoco e la cenere», pronto a primavera, si mostra empatico con i giovani di un centro sociale...
«Sì, e qua parlo, altroché! Nei panni del sindacalista Massimo Serra, un tipo rigoroso a metà strada tra Luciano Lama e Bruno Trentin, dunque, un pezzo grosso del sindacato anni Settanta,
scendo in campo dalla parte della gioventù anti-sistema. È un ruolo che mi ha appassionato, tutto d’un pezzo».
È vero che l’unico attore da lei stimato più di se stesso è stato Marcello Mastroianni?
«Marcello era delizioso. Umile, allegro, bravissimo. Era affabile e non egoista. Odio la gente egoista».
Eppure l’egoismo, oggi, è moneta corrente.
«Purtroppo! Vedo la vita molto diversa da come l’ho conosciuta, una volta. Manca l’amore. Mancano gli amori. Ognuno cerca di essere solo, invece di essere in compagnia degli altri. E questo mi fa tristezza».
I suoi genitori, Dirce e Valentino, le hanno insegnato il valore dell’altruismo?
«Non mi dicevano niente di specifico, ma mi davano il loro esempio. Mio padre era simpaticissimo: aveva un negozio di ferramenta, a Firenze, dove ho aiutato anch’io, da ragazzino. Voleva bene a tutti e tutti gli volevano bene. Cercava di divertirsi insieme agli altri e credo d’aver ripreso da lui».
Perché, mamma Dirce non era cordiale?
«Era più riservata e silenziosa. I ricordi più dolci mi vengono sempre da mio padre».
Quand’è che ha capito che doveva lasciare Firenze, per cercarsi un posto al sole?
«Quand’è morto un impiegato bravissimo, che lavorava da mio padre. Era figlio di uno stradino, gente semplice. Però, in punto di morte, mi disse: “Arnoldo, fa’ la fame, ma gira il mondo!”. Che ti frega dei soldi, insomma, se non cammini sulla terra, se non viaggi? Presi e partii per Roma. Avevo vent’anni e volevo a tutti i costi studiare recitazione al Centro Sperimentale di Cinematografia».
Come avvenne la sua radiazione dal Centro Sperimentale, dopo la promulgazione delle leggi razziali fasciste?
«Arrivò il direttore, con le lacrime agli occhi. Mi prese le mani tra le sue, me le strinse. “Arnoldo, la devo mandar via”, mi disse. Era addolorato... Eppure, in quel periodo schifoso, ho avuto contatti d’una bellezza straordinaria con tanta gente. Di qua e di là dal Tevere».
Ricorda qualcuno, in particolare?
«La mia padrona di casa. Avevo una stanza in affitto, a Piazza di Villa Fiorelli. “Se va via, l’ammazzo!”, mi minacciò questa romana grande, generosa. Ci mettemmo a ridere. Ci amavamo. Non fisicamente, intendo.
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