Fontana: «Il teatro fa grande chi lo serve»

Cristiano Gatti

Come diceva Napoleone, nei momenti estremi mai affidarsi a vecchi generali che non hanno più niente da perdere: meglio puntare su giovani capitani che hanno tutto da guadagnare. Per uscire dal suo momento estremo, la Scala ha scelto il capitano più giovane di sempre: Daniel Harding, inglese di Oxford, trent’anni compiuti il 31 agosto. Mai, nei suoi due secoli e un quarto di vita artistica, il più grande teatro del mondo aveva azzardato tanto: il record resisteva dal 1898, quando un certo Arturo Toscanini celebrò la prima con trentuno anni anagrafici.
Scelta coraggiosa, scommessa acrobatica? Anche. Ma forse mettere sul podio di Muti un ragazzino della bacchetta è semplicemente la scelta obbligata. L’unica scelta possibile. Dovendo voltare pagina, dovendo soprattutto evitare paragoni, meglio spalancare le finestre e lasciare libero accesso alle freschissime ventate di un direttore che incuriosisce, che turba, che sconvolge. Con l’età, certo. Ma anche con la persona e con il personaggio. Se adesso gli orfani e le vedove di Muti non esitano ad applaudire Harding, significa che comunque la scommessa acrobatica della direzione-baby è vinta. Sul resto, si può discutere.
Arrivare alla Scala, per giunta dopo Muti: diciamolo, ci sono almeno due milioni di motivi per qualche tremore. Anche a sessant’anni. Il trentenne invece sale sul podio e per tre ore fa tremare i gloriosi muri del teatro. Energia, vitalità, irruenza. Il bagaglio della sua età gli basta per fare tutta un’altra cosa, rispetto all’ingombrante predecessore. È la direzione che sta già scritta nel cognome, Harding: qualcosa che sa di duro, di spinto, di estremo. Harding e pure un poco shocking.
Che lo stile sia questo, fuori dalle convenzioni e fuori dai rituali, Milano lo intuisce subito, sin dall’arrivo in città del giovane maestro. Una delle prime cose che fa, tra una prova e l’altra, è l’intervista esclusiva alla Gazzetta dello sport. «Dei vostri giornali - spiega - è l’unico che abbia mai letto: il mio italiano non è buono, ma i risultati riesco a capirli».
Da quel momento, chi pensava di trovarsi davanti un vanitoso genialoide, primo della classe per la prima della Scala, scopre di avere tra i piedi un ultrà. Quasi un hooligan, uno strano hooligan pacifista. Sponda Manchester, che al momento sarebbe l’Inter d’Inghilterra. È nell’intervista al giornale rosa che Harding ricorda come ha contratto il virus: «Da bambino ho vissuto a Manchester per qualche anno. Una volta vidi Whiteside segnare un gol con una mano e poi ammetterlo, come a dire: non è regolare, non lo voglio, non è giusto. Ero piccolo, non potevo crederci. Rimasi folgorato».
Da come sta messo emotivamente, è difficile adesso stabilire se sia un tifoso prestato alla lirica o un direttore d’orchestra prestato al calcio. Le due grandi passioni camminano insieme, dentro un cuore capace di emozionarsi, dunque di emozionare.
«Anche la musica è entrata presto nella mia vita - ricorda il maestro -. A otto anni ho cominciato a suonare pianoforte e tromba. Anche se allora ero più preso dallo sport. Cricket e calcio. Tant’è vero che volevo andare in nazionale. Mia madre però mi diceva: non giocherai mai in nazionale, Daniel. Col tempo, ho capito che aveva ragione. Così, più tardi ho deciso di diventare direttore d’orchestra. Avevo in camera il poster di Claudio Abbado, poi diventato un mio carissimo amico. A sedici anni la svolta: registro con alcuni compagni un nastro e lo mando a Simon Rattle, che all’epoca dirige l’orchestra di Birmingham. Lì comincia tutto...».
Sono passati poco più che dieci anni. Ma per i predestinati il tempo corre a doppia velocità: in una stagione così breve, Harding diventa il golden-boy della grande musica. Dirige in tutta Europa, da noi a Torino. Dello spettro che ha tenuto fuori dalla Scala a poderosi colpi di bacchetta, quel Riccardo Muti osannato a Milano per diciannove anni, conserva il ricordo di un incontro e una stima infinita: «È grande. L’ho incontrato nel ’93 a Londra, dopo un suo bellissimo concerto con la Filarmonica di Vienna. Avevo 18 anni e quello mi sembrava il più bel concerto mai ascoltato. Gli chiesi un autografo su un suo disco e di posare con me per una foto. Mi regalò entrambe le cose».
Il galoppo nella gloria non gli impedisce di costruirsi anche un rifugio domestico. Sposato e padre di due figli, Harding racconta di gusti semplici e di necessità minime. Ama la musica della sua età, nel pop di Robbie Williams, ma è incantato anche dall’immortalità dei Frank Sinatra e dei Bob Dylan. Che cosa sia il suo strano lavoro, lo spiega così: «In ogni secondo, ogni musicista si trova di fronte a migliaia di possibili scelte. Il direttore d’orchestra deve usare il suo corpo, la sua faccia, i suoi occhi, per far sì che quella scelta diventi istintiva. E che sia la stessa, contemporaneamente, per tutti». Quanto al debutto dentro la leggenda della Scala, soggezione zero: «È un’occasione speciale, okay. Ma se invece che alla Scala dirigessi a Kinshasa, sarebbe lo stesso. Paura? solo quando non hai una magnifica compagnia di canto e una splendida orchestra...».


Inconfondibile: come tutti i talenti naturali, maneggia la materia esplosiva del mito artistico nel modo più spensierato. E anche un po’ incosciente. Ma il difficile viene adesso: gettare i pannoloni del bimbo-prodigio per salire sul piedestallo di un monumento, questa la vera impresa. La storia insegna: non è un salto che riesca a tutti.

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