Fragrasso indaga sui soldati morti per l’uranio

Roma Fischiano pallottole all'ospedale civile, dove un manipolo di parà scoppiati, dopo aver contratto la leucemia nella guerra del Kosovo, tiene in ostaggio malati inermi. I Nocs fanno un blitz, la Polizia di Stato confligge con i Carabinieri, un mediatore ha figlia e moglie dentro quell'inferno e, alla fine, si muore e si perde, però i valori umani restano salvi. E, soprattutto, una storiaccia diventa di dominio pubblico. Sono Le ultime 56 ore (dal 7 maggio in sala) di Claudio Fragasso, navigato regista d'azione che anche stavolta, forte del successo di Palermo Milano. Solo andata (1995), pigia il pedale d'una rozzezza calcolata sulla velocità dei thriller americani. E allinea azioni spettacolari, senza vergognarsi di presentare i personaggi di questo giallo a sfondo militaresco nella maniera più decisa possibile. Al centro d'una narrazione tesa, ma anche spaccona («niente ostaggi, zero trattative», riassume il commissario che media, un misurato Luca Lionello), c'è una scomoda verità: nei vari teatri di guerra, i nostri soldati sono stati contaminati dall'uranio impoverito, rimettendoci spesso la vita. Sebbene l'esercito italiano non abbia mai usato proiettili a base di scorie, l'anno scorso il Ministero della Difesa ha riconosciuto l'indennizzo ai militari ammalatisi nei Balcani (il nostro è l'unico governo ad averlo fatto). Nasce così l'idea di portare sul grande schermo un film, «che è una dichiarazione d'amore al cinema italiano degli anni Settanta, quando il film di genere ancora andava di moda», dice Fragasso. Con l'usbergo del Ministero della Difesa, il contributo del Ministero dei Beni Culturali, un cast di figli d'arte (da Gianmarco Tognazzi a Luca Lionello, da Francesco Venditti a Maurizio Matteo Merli) e le musiche allarmanti di Pino Donaggio (violini insistiti dell'Orchestra Nazionale Céca), Le ultime 56 ore farà discutere.

Anche se, intorno al nucleo centrale della vicenda, ruota il satellite d'una famiglia in difficoltà, speculare alla «famiglia» militare in conflitto tra dovere e gesti estremi e questo dovrebbe smorzare i toni accusatori. Nel ruolo defilato d'una dottoressa, che pratica l'eutanasia al suo uomo, per motivi umanitari, Barbora Bobulova si dichiara contenta d'aver contribuito «a far conoscere un tema sconosciuto, che io pure ignoravo».

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