Franca Valeri: «La tristezza non esiste»

Parlare con lei è una festa degli occhi e una gioia del cuore. Perché Franca Valeri, che l'estate prossima compie ben novanta primavere, è un cervello in continua evoluzione che non conosce pause né si prepara a quel doveroso riposo che il cielo purtroppo riserva anche a creature privilegiate come lei. Infatti esordisce ridendo quando timidamente le chiedo cosa pensi degli anni che passano. «Cosa vuole che le dica, ragazzo mio», enuncia con quella voce squillante che da mezzo secolo continua a incantarci. «Forse la ricetta per spaventare la morte costringendola ad emigrare su un'altra galassia? Lo chieda a Margheita Hack che, sull'argomento, certo ne sa più di me». Via, signora Valeri, non è da lei sottrarsi al ruolo di veggente, la rimbecco. Chi, solo poche stagioni fa, è stata la Pizia in quel testo di Dürrenmatt che ha rivoltato da cima a fondo come un guanto, ne saprà certo più di me sul futuro che ci attende... «Beh, se proprio ci tiene, una cosina da dire ce l'ho» risponde con finto stupore la donna che è stata, nel dopoguerra, la prima e unica Signorina Snob. Allora me la dica, son tutto orecchi. «Ecco, prima di parlare dell'avvenire, concentriamoci sul presente, che spesso è duro da mandar giù anche per i ventenni. In fondo, quel che dico in Oddio mamma!, la commedia americana che dal 6 aprile vedrete per tre settimane al San Babila, è eloquente in materia». Ma davvero... non è una storia un po' trita quella di un figlio che non riesce a staccarsi dalle sottane di mammà? «Assolutamente no, questo glielo giura la Franca! Poiché il figlio in questione, il mio caro Urbano Barberini, nella pièce di Sam Bobrick e Julie Stein che a Broadway ha tenuto il cartellone tre anni di fila, non solo dalla madre si è allontanato da quel dì ma con lei comunica solo per iscritto. Questo lo saprà, spero». Ma allora dov'è, mi scusi, il lato morboso di questo duetto? «Il lato morboso? Diciamo la maledizione atavica della specie, è meglio. Dal momento che l'uno e l'altra, pur non vedendosi, con le parole che si scambiano ahi ahi per eludersi finiscono invece per incollarsi l'uno all' altra, peggio della chiocciola per sempre rintanata nel suo guscio». Guarda, guarda. Ma allora sarà una pièce tristissima, no? «Cosa significa la parola triste non l'ha scoperto nemmeno Valery, il mio poeta preferito quando, tanti anni fa, mi impadronii del suo cognome per nascondere Norsa, il mio di cognome che, agli inizi, mi regalò il flop più tragico della mia carriera». Che fu? «Caterina di Dio, una tragedia scritta dal ventenne Giovanni Testori che, bontà sua, ahimé col mio pieno consenso mi scambiò per un'attrice drammatica». Non divaghiamo, scusi. Sul conto di Oddio mamma!, sono troppo curioso. Da lei voglio proprio sapere che differenza c'è tra l'allegria e la tristezza. A teatro naturalmente. «Solo a teatro? Si accontenta di poco! Ma se ci tiene davvero…». Ci tengo, ci tengo! «Beh, le dirò, che per me la tristezza non esiste. È solo una pausa per riprender fiato tra una battuta e l'altra. Serve a riordinare le idee, come un sorso di whisky per l' alcolista o la rosa dal gambo lungo per una signora ancien régime». Sembra una frase tolta di peso dalle Catacombe, la sua prima commedia. «Se ne ricorda ancora? Ma appartiene al cenozoico! Via, via, parliamo di oggi e non di ieri. Sa che dal prossimo gennaio sarò di nuovo in scena con una commedia nuova di zecca, italiana al cento per cento e tutta farina del mio sacco?». Complimenti, come s'intitola? «Non tutto è risolto, una frase che un mio amico molto colto credeva fosse tratta da una predica di Bossuet, mentre invece rispetta la mia più intima convinzione». A proposito di che? «Ma dei tempi brutti che stiamo vivendo, diamine e dannazione!». A cosa allude in particolare? «Ai miei coetanei. Quelli appena freschi di studi, per intenderci. Che non sanno di vivere in tempo di guerra». Non le pare di esagerare? «Certo che no. Glielo dice una signora che la guerra l'ha vista. Solo che allora si poteva ancora sperare». In cosa? «Che prima o poi finisse. Mentre ora i poveri cari pulcini della signora Cecioni cosa possono aspettarsi che finisca?». Me lo dica lei. «Che un cataclisma spazzi via il cattivo gusto, ristabilisca il rispetto umano e ci consenta di ridere di vizi e virtù come faceva l'uomo che ho amato di più nella vita».

Chi era? «Un signore che non mi ha fatto la corte ma non per colpa sua». Come mai? «Era nato, caro mio, qualche secolo prima di me». E si chiamava? «Rabelais, l'autore di Gargantua e Pantagruel che oltretutto, disdetta, era pure un frate!».

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