Dunque la Francia ha voglia di destra. Ne ha voglia al punto di essere pronta a votare per lei alle presidenziali; insomma, a mandarla al ballottaggio. Le cifre del sondaggio pubblicato ieri dal quotidiano Le Parisien sono chiare: Marine Le Pen, figlia d'arte e da pochi mesi leader del Fronte nazionale, arriverebbe in testa con il 23% delle preferenze, due punti sopra il presidente Sarkozy e la leader socialista Martine Aubry, fermi entrambi al 21%. Dunque, andrebbe dritta al ballottaggio, come suo padre, Jean-Marie, nel 2002; ma con una differenza sostanziale. Lui ci andò per caso, più per demeriti della sinistra (che arrivò al voto divisa), che per meriti propri. Questa volta, invece, la popolarità di Marine appare consapevole e voluta. Una scelta, non un azzardo, che molti in Francia hanno già iniziato a demonizzare e che, invece, ancor prima di essere criticato, andrebbe capito e analizzato.
Sia chiaro: la destra che apprezziamo è quella moderata e liberale che governa in molti Paesi europei. Formazioni estremiste come il Fronte nazionale non rappresentano, a nostro giudizio, una risposta accettabile ai problemi di oggi, ma se questi partiti emergono con tanta forza (e non solo in Francia), significa che quelli tradizionali sbagliano o perlomeno che non sanno più essere in sintonia con la società.
Oggi un numero crescente di francesi rifiuta l'immigrazione incontrollata e la conseguente imposizione, per inerzia, di una società multietnica. Persino la Francia - le cui radici culturali e nazionali sono da sempre molto profonde - soffre una profonda crisi identitaria. Aggiungete gli effetti della crisi economica, la larvata ma implacabile erosione della sovranità nazionale generata dall'Unione europea, la paura che i recenti sommovimenti nel Nord Africa provochino un'altra ondata migratoria e il quadro appare nitido.
Marine Le Pen è donna e grazie ai suoi 42 anni intercetta un pubblico metropolitano, giovane che suo padre non riusciva a sedurre. È preparata e carismatica. Appare meno estremista, meno «fascista» di Jean-Marie; dunque più accettabile. Nessuno può sapere se nella primavera del 2012, quando si svolgeranno le nuove presidenziali, riuscirà a giungere al ballottaggio; di certo, però, la sua popolarità non è immotivata.
E questo dovrebbe far riflettere Sarkozy, il suo declino nei sondaggi ha molte ragioni; una, però, è evidente: da circa un anno il presidente tende ad accreditarsi come leader centrista e ha notevolmente annacquato le sue posizioni sui temi sociali e identitari. Doveva essere la mossa vincente per spiazzare la sinistra. E invece lo sta danneggiando.
Nel 2007 Sarkoy vinse perché propose un programma innovativo e liberaldemocratico e al contempo molto profilato sull'immigrazione e sulla necessità di preservare i valori della tradizione. Senza mai dichiararlo, «rubò» spazio proprio a Le Pen, dando una rispettabilità a idee che, altrimenti, tendevano al razzismo e all'intolleranza. I francesi, premiando Marine, chiedono che quelle esigenze tornino al centro dell'agenda politica e Sarkozy dovrà prenderne atto. Se vuole restare all'Eliseo deve essere quello di quattro anni fa. Insomma, deve andare a destra e ancora a destra.
E in Italia? Certi umori sono palpabili anche nel nostro elettorato, che quando pensa alla destra francese la ricollega non a Bossi, né a Berlusconi, ma a Gianfranco Fini. Al Fini del Msi, che negli anno Ottanta abbracciava Jean-Marie Le Pen, ma anche al Fini di Alleanza nazionale, che, unico italiano, nel 2008 veniva invitato proprio da Sarkozy a celebrare i suoi allora freschi successi.
Gianfranco Fini, però, non è più quello di 25 anni fa e nemmeno quello di tre anni fa. A onor del vero, non è più nemmeno di destra. Ragiona e agisce come un leader progressista, canta le lodi della globalizzazione e si presenta come alfiere del Terzo Polo.
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