Il frate chirurgo che nel Benin è venerato come un dio

Migliaia di persone accorrono nel Benin da tutta l’Africa occidentale per farsi curare da fratel Fiorenzo, chiamato "l’uomo dalle mani d’oro"

Il frate chirurgo che nel Benin 
è venerato come un dio

nostro inviato a Tanguieta (Benin)

C'è un italiano di cui il nostro Paese dovrebbe essere orgoglioso e che invece non conosce. Si chiama Fiorenzo, fratel Fiorenzo, e vive a Tanguieta, nel nord del Benin, a 650 chilometri dalla costa. Africa profonda, Africa poverissima: un posto dove un occidentale mai si sognerebbe di andare a vivere. Le costruzioni in cemento sono pochissime e i 70mila abitanti di questa regione vivono in capanne o in casette costruite con mattino di fango indurito. Nei mesi estivi la temperatura supera i 45 gradi e il caldo è così secco da spaccare le labbra. Eppure proprio qui Fiorenzo ha trovato il suo equilibrio, rinunciando a tutto, convinto che la felicità sia dare, sia aiutare, senza condizioni, senza pensare se il sofferente che ha davanti è un cristiano, un musulmano o un animista.
Di cognome fa Priuli e non è un prete, sebbene 40 anni fa abbia pronunciato i voti di povertà, castità, obbedienza e ospitalità diventando un seguace di San Giovanni di Dio, il fondatore dell'ordine dei Fatebenefratelli. Ma è un gigante del Bene e dell'Altruismo, degno di Madre Teresa di Calcutta. La Francia lo apprezza da tempo e nel 2002 Chirac gli ha attribuito la Legione d'Onore; nel Benin è venerato come una divinità, da Cotonou, la città principale, al più remoto villaggio agricolo. E oltre confine: vengono a farsi curare da lui pazienti dal Burkina Faso, dal Niger, dal Togo.
Lo chiamano l'«uomo dalle mani d'oro». Bresciano della Val Camonica, è un chirurgo, ma col tempo è diventato anche un epatologo, un internista, un manager. Per l'ospedale di Tanguieta farebbe (e fa) di tutto. Perché questa è la sua creatura, il suo miracolo. Trentotto anni fa, quando fu inaugurato dai Fatebenefratelli, era composto da poche stanze; oggi è una struttura con 220 posti letto, un reparto di chirurgia, uno di medicina interna, un pronto soccorso, la pediatria, la maternità, un centro nutrizionale.
Come faccia a funzionare è un autentico mistero «della Provvidenza», dice Fiorenzo, che può contare su altri due chirurghi e su 7-8 preti medici. Più qualche suora e la mitica Rosanna, un'italiana laica che da vent'anni vive nel Benin ed è la grande organizzatrice. In qualunque altro Paese del mondo l'ospedale sarebbe chiuso da tempo; qui no. Anzi: continua a svilupparsi; grazie anche ai molti volontari che vengono a trascorrere qualche settimana all'anno. E che volontari: una squadra di oftalmologi spagnoli, un famoso primario francese, un grande urologo svizzero, diversi specialisti italiani e persino simpatizzanti che, pur non essendo medici, vengono a dare una mano a dipingere, riparare, tirar su muri. Farebbero di tutto pur di vivere l'atmosfera di Tanguieta.
Perché Fiorenzo è un trascinatore che, con il suo dinamismo, diffonde armonia. Trascorre in sala operatoria almeno 12 ore al giorno, compiendo 20-25 operazioni. E non è mai stanco: ha sempre la luce negli occhi. Quando visita i reparti viene salutato come un Messia: i ragazzi con le gambe deformate dalla poliomielite, e che un giorno riusciranno a camminare grazie ai suoi interventi, si sbracciano felici non appena lo vedono; le madri sdraiate sulle stuoie con i neonati lo ringraziano con un sorriso da qui a lì. Lui scherza con tutti, sempre positivo. La sua generosità è innata. E contagiosa.
In teoria i pazienti dovrebbero pagare per le cure ricevute, una manciata di euro al giorno, ma la maggior parte è così povera da non poter offrire altro che una gallina o un cesto di frutta. Fiorenzo accoglie tutti e riesce a far quadrare i conti grazie alle donazioni che riceve da più parti, in Italia tramite le Onlus U.T.A. (Uniti per Tanguieta e Afagnan) e Amici di Tanguieta.
Oggi ha 62 anni, ha avuto la tubercolosi, l'epatite che dall'81 cura con una pianta miracolosa, il Combretum micranthum, un ginocchio fuori uso, una placca nel femore, ma continua ad avere l'energia di un ragazzo. Non ho ancora capito quante ore dorma per notte. Quando sei con lui il telefono squilla in continuazione: in linea, dall'Italia, il suo grande amico e collaboratore fra Luca Beato, una coppia di malati di Aids che lo chiama solo per salutarlo, una paziente del Burkina Faso a cui deve fissare l'operazione. Il pranzo lo salta quasi sempre e spesso, non appena si siede nel refettorio a cena, viene richiamato in sala operatoria per un'emergenza. Lui si alza e va, senza mai lamentarsi.
Riesci a parlargli per pochi minuti e ogni volta si schiude un mondo: racconta di come molti compagni di nunziato che nel '68 abbandonarono la toga oggi lo invidiano e si rammaricano di non aver tenuto duro; narra la straordinaria amicizia epistolare con il Califfo musulmano del Niger; confessa la sua lotta per non cedere alle debolezze, a cominciare dalla più insidiosa, quella affettiva; ti spiega la sua concezione del cristianesimo, semplice e radiosa.
Alle 23 si attacca al computer e segue i pazienti italiani a cui dà, gratis, la pianta che tiene a bada l'epatite C; risponde all'Organizzazione mondiale della Sanità di cui è uno degli esperti per le malattie tropicali; controlla i conti dell'ospedale. In piena notte studia nuove cure e interventi per malattie a noi sconosciute, come le fistole vescico-vaginali. Alle 6 del mattino è già in piedi.
Nel 1968 a Tanguieta il 50% dei bambini non arrivava ai 12 anni e gli adulti non superavano i quarant'anni. Oggi il tasso di mortalità è crollato e la vita media si è allungata di molto. Nonostante le epidemie e l'Aids e la malnutrizione.

«Se dovessi rinascere non riuscirei a chiedere al Signore il 50% delle gioie che ho ricevuto finora», perché donare è la sua missione. «Ogni volta che riesco a salvare una vita sento una luce nel cuore». È Dio che gli parla; è Dio che, attraverso lui, ci parla.
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