Ferruccio De Bortoli nella prefazione delledizione economica de La Rabbia e lOrgoglio di Oriana Fallaci è onesto. Ammette: «Non la difesi abbastanza». Diciamo che tutto quel grande giro di giornalisti che pure la stimavano e andavano da lei, nessuno osò dire: sto con lei, mi batto per lei. Non solo perché è coraggiosa e scrive bene, ma perché ha ragione. Oriana Fallaci mi raccontò che un giorno venne da lei Paolo Mieli. Lei magari nel racconto esagerava, ma rende lidea di quegli anni. Oriana stava in casa della sorella in via Statuto a Milano, vicino al Corriere. Gli chiese: «Ma tu sei daccordo con quanto scrivo sullIslam?». Lui rispose: «Hai ragione. Ma devi picchiare di più». E lei stupita: «Ma perché non scrivi apertamente che ho ragione?». Mieli: «Perché sono un vigliacco».
Ora De Bortoli ammette: «Non lho difesa abbastanza». Eufemismo. Fu grande a pubblicarla, con laria che tirava allora. Ma poi la lasciò sbranare da qualunque grande o piccola forma passasse da quelle parti. Sui giornali dItalia si scatenò la guerra ad addentarle il polpaccio da dietro. Anche da destra, ovvio, siamo i più bravi a farci del male. Così Massimo Fini e Pietrangelo Buttafuoco. Ma a sinistra fu un coro assatanato. Si giunse persino a scrivere sulla prima pagina di Repubblica, il giorno in cui papa Ratzinger, nellagosto del 2005, la ricevette, che era giusto così perché i Papa «non ricevono persone perbene». La penna era quella di Pietro Citati, con quellaria snob, da letterato che usa la sciarpetta di seta per non respirare lodore delle Torri Gemelle bruciate. Il colmo accadde nel giugno del 2004, quando Oriana osò scrivere al direttore della Gazzetta dello Sport una breve lettera per difendere il gesto di Totti che aveva sputato in faccia al danese Poulsen durante gli europei di Lisbona. Ci fu una sollevazione dei redattori unanimi contro Pietro Calabrese che dovette giustificarsi di aver lasciato parlare Oriana la maledetta. Non da noi, non da noi. Per noi benedetta. Benedettissima. Vera speranza di umanità audace, di giudizio pieno di rabbia ma anche di amore e di ragione, mentre si disfaceva la fibra interiore di tanti, si liquefaceva la nostra cifra interiore di umanità e di dignità dinanzi allassalto di chi voleva la nostra sottomissione alla barbarie.
Che giorno fu quel giorno di settembre del 2001. Venne giù un muro. Un muro più duro di quello in fondo di carta velina delle Torri Gemelle, distrutte da Bin Laden. Venne giù il muro della nostra ipocrisia. Il Corriere della sera aveva pubblicato La Rabbia e lOrgoglio di Oriana Fallaci. Vittorio Feltri mi telefonò di prima mattina. «Hai letto?». Avevo letto. «Qui viene giù tutto, cambia tutto». Ci mettemmo a lavorare. A me toccò la sintesi, capitolo per capitolo, di quel grido tremendo e insieme melodioso. Impossibile riassumere. Individuai due parole buone, dolcissime: campane, amore. Il resto era acciaio. Il tutto, questa opera di Oriana, fu la prima risposta formidabile, lunica vincente finora a 2009 al tramonto, contro i kamikaze, contro Bin Laden, questo è sicuro. Ma anche contro la pancia molle dellOccidente pantofolaio e adoratore del suo ombelico dialogante, pronto a dire meglio-musulmani-che-morti, senza sapere che mentre diceva così era già morto, cadavere. Se uno non è disposto a morire per qualcosa che gli è caro, vuol dire che non merita di durare un attimo di più. Per questo Oriana alla fine rese, dichiarandoli nemici giurati, onore agli islamici combattenti. Avevano qualcosa per cui morire.
Feltri e la sua squadra diventammo gli avamposti isolati di Oriana in Italia. Il partito orianesco senza bisogno di sigle o patrocini ufficiali. Con Oriana non cerano giornalisti e intellettuali, tranne i pochi già citati, più il vescovo Rino Fisichella. Si aggiungerà più tardi Giuliano Ferrara. Ma cera un popolo immenso e senza voce. Trovò le parole che non trovava in quelle paginate del Corriere. E poi nei suoi libri. La trilogia, del quale ultimo volume (Oriana intervista se stessa, e poi lApocalisse) fui modesto consulente a proposito di decapitazioni e Turchia, ha segnato un caso unico. Unopera alta, niente affatto di pronta beva, non un gazzosino per citrulli sulla sdraio, ma roba tosta, amara, che non vellicava il ventre di nessuno, sbancò le librerie, con la casa editrice che pareva quasi volersi giustificare con il successo di mercato della impresentabilità nei salotti della sinistra al caviale di quei titoli. Riuscì addirittura a pubblicare, in uno dei suoi rami, la Marsilio, Cattiva maestra di Giancarlo Bosetti, pieno di errori volgari, reclamizzandolo pure.
Andò così fino alla sua morte. Carlo Azeglio Ciampi osò giocare con il suo cognome, come un goliarda vituperoso, pur sapendo che era divorata dal cancro. La compagnia di martiri professionisti del giro di Santoro, cioè la Sabina Guzzanti, la imitò con lelmetto in testa, con odioso umorismo sul suo tumore. Una raccolta di firme promossa da Feltri perché fosse risarcita con il seggio di senatore a vita ebbe un clamoroso successo e un indecoroso silenzio in risposta.
Dopo la morte, una differenza. Si è cominciato subito a esaltarne la prosa, laudacia di giornalista, il femminismo ante litteram. Tutto pur di non entrare nei contenuti. Non lo fa nessuno.
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