«Fu un antisemitismo di Stato»

La domanda - che è più di una domanda storiografica - affiora già da tempo non solo tra gli studiosi, ma anche presso tutti coloro che non amano fermarsi ai «sentito dire», compreso quelli riportati da alcuni frettolosi o interessati manuali scolastici: cosa c’entra esattamente l’antisemitismo con l’anima del popolo italiano? L’interrogativo - sebbene sia di quelli «a volo d’aquila», che meriterebbero fin da subito ulteriori distinzioni e approfondimenti - ha la sua ragion d’essere: sempre più storici, infatti, stanno indagando su come la cultura italiana non sia mai stata, neppure in epoca mussoliniana, organicamente antisemita, quanto piuttosto «facilona» e predisposta, per pigrizia morale o per convenienza, a «fare gregge» dietro a leggi come quelle razziali, lontane dalla sua vera indole. Tra questi studiosi, c’è Marie-Anne Matard-Bonucci, professoressa di Storia all’Università di Grenoble II, che nel suo L’Italia e la persecuzione degli ebrei (il Mulino, pagg.530, euro 29) ripercorre non «la storia, ormai studiata bene, delle condizioni degli ebrei della penisola durante quegli anni bui, quanto la natura e la funzione dell’antisemitismo di stato nel quadro di un regime totalitario».
Già, antisemitismo di stato. L’espressione è piuttosto forte, ed è la chiave di volta del saggio della Matard-Bonucci, che si chiede: come è stato possibile organizzare e portare a termine lo sterminio di un quarto degli ebrei della penisola, dalla metà degli anni Trenta alla fine della guerra (7.658 morti su una comunità di 35.200), quando solo un decennio prima un massacro simile era del tutto inimmaginabile nelle coscienze degli italiani? Se infatti la Francia aveva avuto il caso Dreyfus, la Russia, l’Ungheria e la Polonia i loro pogrom, e se in Austria l’antisemitismo faceva parte della tradizione nazionale, in Italia le cose stavano in modo diverso. Il partito fascista era intrinsecamente violento e fanatico, ma non aveva in origine tratti antisemiti: li assunse solo per una serie di ragioni che la studiosa francese ripercorre nel dettaglio: tra tutte, quella di un’«esigenza politica interna, che rispondesse ai bisogni congiunturali e strutturali di un regime votato alla mobilitazione permanente in un periodo in cui l’ideale dell’uomo nuovo sembrava difficile da raggiungere».

In pratica, fu pianificato un vero e proprio «transfert culturale»: con lo stato fascista che prendeva a prestito le parole e le idee dell’alleato dell’Asse, sforzandosi di nazionalizzare l’ideologia antisemita con l’aiuto di intellettuali e mezzi di informazione, che crearono «ad arte» un dibattito su una questione fino allora marginale: quella della razza. La diligente assenza di proteste sociali portò alla luce un tratto del carattere italiano forse più reale di quello antisemita: il conformismo.

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