«La fuga di notizie colpa dei pm milanesi E addio credibilità»

Roma«Pezo el tacon del buso». Scusi? Marco Boato ride, poi spiega: «Peggio la pezza del buco, in veneto. È così la dichiarazione del Procuratore di Milano, Bruti Liberati: dice che sulle intercettazioni indirette di Berlusconi è stata rispettata rigorosamente la legge Boato. Mi sembra un escamotage mal riuscito per coprire un errore clamoroso».
Perché invece, secondo la legge del 2003 che prende il suo nome...
«...è pacifico che non dovevano essere inserite nel fascicolo del processo Ruby intercettazioni che riguardano un parlamentare, il premier, che è imputato nel processo, senza aver ottenuto l’autorizzazione della Camera».
Il Procuratore dice che non saranno utilizzate come prove contro Berlusconi, ma nel processo contro Minetti, Fede e Mora.
«E allora perché sono agli atti del processo stralciato contro il premier? Non riesco a capire come queste trascrizione possano essere legittimamente depositate nel fascicolo. Non ci dovevano essere. La spiegazione della Procura mi sembra paradossale: una copertura giuridica per un probabile errore materiale. Non di cancellieri o poliziotti, ma dei pm che ne avevano la responsabilità».
Solo un errore?
«Credo che non ci sia un reato, ma una palese illegittimità sì. Non penso al dolo anche perché per la Procura questo è un boomerang. Se c’è sputtanamento per il premier, c’è ancor di più per i pm. Una castroneria così fa perdere credibilità. Inutile che adesso dicano di aver fatto tutto con rigore, scrupolo e pieno rispetto della legalità».
Che cosa non la convince in particolare?
«Se le quattro conversazioni con Berlusconi pubblicate dalla stampa non dovevano essere utilizzate come fonte di prova contro Berlusconi, perché sono rimaste agli atti, mentre moltissime altre sono state eliminate su ordine di Bruti Liberati? Non c’è nessuna spiegazione logica».
E la sentenza della Corte costituzionale che nel 2007 stabilì che le conversazioni indirette possono essere utilizzate contro terzi?
«La sentenza modificò l’articolo 6, che impone al gip di richiedere l’autorizzazione parlamentare per utilizzare le intercettazioni come prova contro il parlamentare, mentre non serve contro i terzi. E allora le conversazioni semmai dovevano stare nel fascicolo che riguarda gli altri imputati, non Berlusconi».
Che conseguenze può avere quello che è successo?
«Lo stesso articolo 6 parla della inutilizzabilità degli atti in questione. Forse, in futuro si potrebbero prevedere sanzioni più dure».
Ma non paga nessuno per questa illegittimità?
«Come ho detto, non credo ci sia stato dolo da parte dei pm. Ma potrebbe arrivare una denuncia da parte dei legali del premier. O un esposto disciplinare al ministro o al Procuratore generale della Cassazione. Mi sembrano però ipotesi poco probabili e l’inchiesta non viene inficiata da un fatto del genere. Quello che si può fare è solo una denuncia pubblica».
Anche da parte del presidente della Camera?
«Fini potrebbe denunciare la violazione delle prerogative del parlamentare Berlusconi. Ma il presidente della Camera non interviene d’ufficio: potrebbe farlo se altri lo investono della questione».
Oltre alle intercettazioni sono stati pubblicati tabulati di telefonate del premier.
«Per i tabulati vale lo stesso discorso delle intercettazioni. Ricordo che in Parlamento che ci fu uno scontro furioso con alcuni esponenti del Pds che non volevano includerli. La spuntai io, ma anche in quell’occasione fu chiaro che ero un relatore del centrosinistra contrastato duramente dal centrosinistra».
Come successe?
«Tutto il lavoro fatto dal ’93, dopo la modifica dell’articolo 68 sull’immunità, fu messo da parte con l’avvento di Berlusconi, quando il clima cambiò. La sinistra, prima garantista, regredì su posizioni giustizialiste e si rimangiò tesi condivise sulle prerogative parlamentari. Io, che ero rimasto sulle posizioni originarie, mi trovai fuori posto».


Però, quando furono intercettati Fassino e D’Alema su Unipol...
«Ecco, allora l’articolo 6 della legge, che la sinistra aveva osteggiato come troppo lassista, divenne troppo poco rigoroso. È il garantismo a corrente alternata».

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