Galliani e la partita a scacchi: «Ci manca il Rijkaard di Vienna»

«Il Liverpool somiglia a quel Benfica, e l’olandese lo scardinò». «Solo» 15.000 tifosi al seguito

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Franco Ordine

nostro inviato a Istanbul

Ottantamila a Barcellona nel maggio dell’89, appena quindicimila in marcia verso Istanbul: un esercito al cospetto di una brigata. La prima delle sette finali di coppa Campioni dell’era berlusconiana, l’alba virtuosa del magico ciclo rossonero, fu scortata dall’esodo biblico verso la Catalogna. «Una città che si trasferisce in un’altra città» la chiosa di Silvio Berlusconi che passò 15 minuti in preghiera nella cappella dello stadio Camp Nou, «a pregare il dio degli eserciti» affinché proteggesse il suo Milan contro lo Steaua, Romania, la squadra cara a Ceausescu. Finì in un trionfo.
In sedici anni la carriera europea del Milan berlusconiano non conobbe un altro viaggio con quelle dimensioni. L’anno dopo, perso per cento lire, le cento lire di Alemao, lo scudetto più meritato della gestione Sacchi, a Vienna si presentò un altro Milan, non più l’armata irresistibile, ma una squadra segnata nei muscoli (dalla stanchezza del duello col Napoli di Maradona e Moggi) e nel morale. Come in queste settimane, risultarono decisivi dieci giorni di riposo assoluto, un lancio di Costacurta con velo di Van Basten e una stoccata di Rijkaard («Ci vorrebbe domani», ammette nostalgico Galliani) per piegare la fragile resistenza del Benfica di Eriksson.
Lungo l’affascinante avventura da Barcellona a Istanbul, non ci furono solo rose e fiori, trionfi e oceanici trasferimenti. Con Fabio Capello in panchina, la carriera continentale del Milan subì qualche colpo basso: il primo a Monaco contro il Marsiglia nella sera in cui Marco Van Basten giocò la sua ultima partita. Sbagliò un paio di gol prima di inchinarsi al colpo di testa di Bolì. Dentro le viscere rossonere, l’effetto fu terribile. Silvio Berlusconi e suo fratello Paolo, riuniti fino a notte fonda nell’albergo della squadra pensarono anche al commiato da Capello, immaginarono una candidatura Zeman addirittura.
Fu allora che maturò la convinzione di mettere in un cassetto, per la finale, la maglia rossonera e adottare quella bianca, esibita l’anno successivo, ad Atene, contro il Barcellona come un amuleto, lo stesso di Manchester e adesso di Istanbul. «A leggere i giornali, ad Atene stavamo andando incontro a un massacro» ricorda Adriano Galliani. Senza Baresi e Costacurta squalificati, don Fabio fece ricorso alla vecchia guardia. Pensarono Massaro e Savicevic, ispirati da Donadoni, a fare a fettine la difesa allegra di Cruyff.
La fine del ciclo degli Invincibili fu dichiarata in modo solenne dal giovane Ajax di Van Gaal, sempre a Vienna, stadio Prater ribattezzato Happel. Kluivert fu l’eversore, Rijkaard la chioccia. A Manchester, otto anni dopo, il Milan tornò a riveder le stelle in una finale tutta italiana, prima della storia, contro la Juventus con lo scudetto sul petto nel 2003. La sera prima il predicozzo di Ancelotti ai suoi si concluse con un applauso. «Ci disse: siete arrivati fin qui, adesso conquistatela» riferì più tardi Paolo Maldini.


«La finale è già un traguardo, il secondo è vincerla» ripete in queste ore Galliani che si lascia torturare dal timore di dover chiudere a mani vuote la stagione e di dover provvedere, per dovere di ufficio, alla premiazione di Juventus e Inter o Roma, scudetto e coppa Italia. Col Milan a guardare.

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