Gambetta: mixo musica Usa e made in Italy

Grande successo del concerto al Teatro delle Erbe, ora pubblica «Blu in Genova», un dvd che ricostruisce il suo percorso

Antonio Lodetti

da Milano

«Sono partito per gli Stati Uniti con un biglietto aereo economico di 25 giorni e un registratore digitale quando ancora non erano in circolazione. In 24 giorni sono andato a trovare tutti i grandi della chitarra acustica, da Norman Blake a Dan Crary, ho studiato il loro stile e ho inciso Dialogues, il mio cd omaggio al country». Così, con tanto amore e un po’ di iniziativa, Beppe Gambetta in pochi anni è diventato uno dei chitarristi country più amati in America. Là tiene centinaia di concerti all’anno nei teatri più prestigiosi («laggiù sono più disponibili ad ascoltarti. La prima volta ho suonato a un festival con gente come Emmylou Harris, nessuno mi conosceva ma alla fine mi hanno applaudito e mi hanno offerto hamburger e birra»). A Milano ha suonato per la prima volta giovedì scorso, facendo crollare di applausi il Teatro delle Erbe, e questo fine settimana sarà al festival Celtic Connection di Glasgow. Bella forza, dirà qualcuno, gli americani vanno pazzi per il country. Ma Gambetta suona qualcosa di diverso, una musica acustica che è incontro tra cultura popolare americana ed italiana. «Un racconto che lega strettamente le due sponde dell’oceano - dice Gambetta -; la tela dei jeans viene da Genova ed è diventata famosa in Usa, e molti italiani hanno fatto lo stesso in campo musicale. Nic Lucas, italiano, è stato il primo ad incidere brani di chitarra in America; le composizioni di Pasquale Taraffo erano amatissime all’inizio del secolo scorso. Io voglio cucire insieme le due tradizioni». Così, ad esempio, ha registrato Traversata (con Carlo Aonzo e David Grisman) per recuperare quei suoni perduti nel tempo, poi Blu di Genova rivitalizzando piccoli capolavori nascosti come Marcia americana (scritta da Pasquale Taraffo su un’aria di Wagner) e infine ha ricostruito il suo percorso con il dvd Live in Genova ricco di ospiti come Gene Parsons, Tony Mc Manus, Dan Crary. «La mie composizioni sono un incrocio tra le radici americane e la cultura popolare italiana, come testimoniano Tarantexas o la cover di Creuza de ma di De André. Prima di eseguirla dal vivo ho chiesto la benedizione di Fabrizio. “Sono felice che tu la porti in giro per il mondo” mi ha detto».
Grande tecnica, d’accordo, ma come crearsi uno stile nel mare magnum della musica acustica americana? «È difficilissimo affrancarsi da personaggi come Doc Watson. Io ho studiato per anni, nota per nota, i loro passaggi. Persino Al Di Meola ha studiato le opere di Doc Watson, ma se continui così rischi di diventare un juke box. Così ho inventato uno stile riproponendo a modo mio differenti tradizioni che non sarebbe ortodosso fondere». Lui, maestro del flatpicking (ovvero la chitarra suonata con il plettro) mixa la tradizione italiana (ad esempio lo stile della zona del Logudoro) a quella celtica fino ad arrivare alle nuovissime tecniche di Nashville «dove sono sempre un passo avanti».
In Italia lo etichettano come artista country, ma Gambetta difende la sua indipendenza. «È un accostamento pericoloso. È vero che sviluppo le varie fasi della vera musica country, dalla old time dei monti Appalachi al bluegrass. Però non sono un cowboy.

Infatti sto preparando un nuovo album di mie composizioni. Non sarò mai abbastanza riconoscente a Pasquale Taraffo per ciò che ha fatto per legare le nostre culture: in Usa ha scritto brani oggi popolarissimi e ha portato il tango in Italia con l’orchestra di Edoardo Bianco».

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