di Vittorio Sgarbi
È stata mia precisa volontà restituire Palazzo delle Albere di Trento alla sua originaria destinazione, come parte integrante del Mart (il Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto), ospitando opere di artisti trentini per diverse ragioni relegate nei depositi. Non ho avuto dubbi nell'iniziare questa nuova stagione con l'artista meno locale e più originale, nella sua assoluta autonomia da mode e movimenti: Tullio Garbari (1892-1931).
Questa riemersione dai fondi del Mart è anche un ritorno: io vidi la prima mostra di Tullio Garbari proprio in Palazzo delle Albere, nel 1984, trentacinque anni fa. E ne conservo il catalogo, a cura di Giorgio Mascherpa con Gabriella Belli e Maria Garbari. L'originalità dell'artista segna il punto di congiunzione tra primitivismo e modernità, senza alcuna indulgenza per le avanguardie, ponendosi in equilibrio fra le nuove riflessioni di Carlo Carrà su Giotto, il doganiere Rousseau, Alberto Magri, Lorenzo Viani. Tutti spiriti indipendenti, la cui autenticità è, letteralmente, originaria. Non è un caso che, con la parola «primitivo», si indichi un mondo che non è solo quello dell'arte africana, che ispirò Picasso, ma anche quello delle origini della pittura moderna, tra Cimabue, Giotto e Duccio di Buoninsegna. Primitivi sono, in questa periodizzazione, i pittori del Trecento e del Quattrocento, il cui nitore e candore l'opera di Garbari riproduce, più per istinto che per ragione. Ne è pienamente consapevole, Garbari.
Dopo gli anni della formazione, tra Venezia e Firenze, Garbari ha la sua illuminazione formale a Milano, grazie all'assidua frequentazione con Carlo Carrà che iniziò nel 1910 (si ricordino opere come l'Antigrazioso o La carrozzella). Il salto nella cultura arcaica avviene proprio grazie a questo incontro, anche se presto le strade dei due pittori si separeranno. Infatti, il primitivismo di Carrà è eminentemente una questione formale, mentre quello di Garbari ha una sacralità profonda che nasce dallo studio dell'espressività emotiva e passionale dell'arte arcaica, e soprattutto di quella popolare. È proprio nella dimensione del sacro che il primitivismo di Garbari raggiunge un'autenticità senza precedenti, che trasfigura in visione mistica non solo l'iconografia devozionale (San Sebastiano, Sant'Antonio, la Composizione apocalittica, la Madonna della pace), ma anche la disarmante semplicità di un soggetto da ex voto come Il miracolo della mula.
Quando i grandi artisti raggiungono un diapason così alto, poi la loro ricerca esce dai confini della pittura primitiva, nella quale Garbari eccelle. Nascono così capolavori di ispirazione quasi onirica, al confine con il realismo magico, come La sibilla di Terlago e La sibilla cumana. Alcune agresti ingenuità sembrano coincidere, sul piano dell'ispirazione, con la pittura successiva, e carica di turbamenti, di Antonio Ligabue e Pietro Ghizzardi, due eccentrici, fuori dalla storia come fu Garbari. Ma Garbari non è un pittore senza tempo. Come osservò Gino Severini: «Lo sforzo di semplificazione e di purificazione interna che si trova nell'opera di Garbari e la sua costante intenzione di mettere in essa un ricco contenuto spirituale lo conduce, per così dire, automaticamente verso uno dei fini più nobili e, nello stesso tempo, dei più attuali: e cioè quello di toccare le intelligenze della folla, nello stesso tempo che quelle della cosiddetta élite». Ora, molte cose sono state dette, e si diranno ancora, di Tullio Garbari, e della sua originalità e centralità e autenticità, nei primi trent'anni del secolo scorso. Ma io non voglio risparmiarmi di stupirvi, allargando il campo delle affinità a un altro artista e un altro mondo, come per indicare una necessità e una urgenza dei tempi.
C'è infatti, a distanza, e senza collegamento, una singolare consonanza tra l'opera di Tullio Garbari e quella del grande pittore americano, nato soltanto un anno prima di lui, nel 1891: Grant Wood, autore del celeberrimo American Gothic, di stesura più minuziosa ma di identico stupore, che caratterizza, oltre che le presenze umane, il paesaggio del grande pittore: anch'esso onirico e incantato. In entrambi i casi si tratta di rappresentazioni di assoluta verginità. Si accostino opere come Riposo sul prato a Spring in the Country, di corrispondente sensibilità, per averne riscontro. E se la visione di Grant Wood viene definita «regionalista», quella del trentino Garbari può ben dirsi autonomista, senza paragoni in tutta la pittura, e con tangenze assolutamente spontanee con grandi artisti diversamente primitivi, come Giotto e William Blake.
Mi fermo qui.E, riproponendo in Palazzo delle Albere le opere di Tullio Garbari, auspico un rinnovato vigore di studi sui grandi artisti trentini, da Luigi Bonazza a Mario Disertori, da Umberto Moggioli a Paolo Vallorz.
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