Il Garibaldi «padre della patria» è quello di Dumas

Ogni volta che si parla di Garibaldi non mancano le critiche di ogni tipo sul passato. Alcuni si lanciano in inutili proclami a sfondo ideologico che mi lasciano alquanto perplesso. Sopra tutti spicca la dichiarazione del presidente della Camera Fausto Bertinotti, il quale afferma di veder in Garibaldi una «forte connotazione partigiana» con un dato valore alla base: «L’aver vissuto l’unità d’Italia non come idea letteraria, ma come la condizione per l’esistenza di un popolo». Mi permetto di far notare un punto fondamentale che stride con la tanto acclamata voglia di unità d’Italia di Garibaldi. Fu proprio il generale a opporsi strenuamente agli accordi di Plombières (1858) stretti fra Cavour e Napoleone III, attraverso i quali il Regno di Sardegna promise la cessione di Nizza e della Savoia all’alleato francese in cambio del sostegno militare per la causa dell’unificazione italiana. Facile comprendere il motivo: non voleva che la sua città natale diventasse francese. Se la sua opposizione fosse stata coronata da successo i francesi non avrebbero dato l’appoggio fondamentale all’esercito piemontese per conquistare Roma e tutto il piano che ha portato all’unificazione dell’Italia sarebbe saltato. Forse Garibaldi credeva davvero nell’unità d’Italia ma sperava che i francesi avrebbero dato il loro appoggio gratis? E in assenza di quell’appoggio francese, che egli sperava tanto arrivasse pro bono, avrebbe rinunciato a unificare la nazione pur di mantenere Nizza italiana?


Con i se e con i ma la storia non si fa, caro Bucci ed è un peccato perché nella vicenda garibaldina i se e i ma si sprecano. I Mille, ad esempio. In quel fatale 1860 l'Eroe dei Due Mondi mica era tanto convinto di salpare per la Sicilia. Egli progettava infatti di conquistare - di liberare - la sua Nizza, non il Meridione. Furono Bixio, Medici e Crispi a convincerlo che era più opportuno dirigersi in Sicilia e lo fecero calando un asso che fugò i dubbi del Generale: il famoso telegramma, contraffatto da don Ciccio Crispi (l'originale dava notizia del fallimento dell'insurrezione sull'isola, quello fasullo del suo inarrestabile successo). Ci pensa se invece che a Marsala Garibaldi con i suoi Mille fosse sbarcato a Nizza? Non sarebbero bastate le moine di due dozzine di Nicchie Castiglione per rabbonire Napoleone III.
Salvo a parlarne male, di Garibaldi si può dir tutto e dunque anche, come ha fatto Bertinotti, che avesse una forte connotazione partigiana. Tanto la figura iconografica dell'Eroe mica trae dalla storia: fu Alessandro Dumas, il re del feuilleton, ad imporre il «personaggio» tutto eroismo e disinteresse, audacia e idealismo, poncho e camicia rossa. Ed è al Garibaldi di Dumas che ancora ci si riferisce (Bertinotti compreso), specie di questi tempi commemorativi, non al Garibaldi storico, con le sue fessaggini, le sue mattane, le sue volgarità anticlericali (e le sue sconfitte). È un Padre della Patria, senza dubbio, ma fatto tale molto dopo la sua uscita di scena. E non so quanto davvero popolare, nel senso proprio di largamente conosciuto, oggetto di favore e simpatia. Quando, ragazzo di bottega, ero al Messaggero di Roma, l'editorialista Francesco Maratea mi raccontò che un giorno, sarà stato il 1922 o '23, s'imbatté alla Posta centrale di Piazza San Silvestro in Ricciotti Garibaldi, lì per riscuotere la pensione. Allorché se lo vide davanti l'impiegato gli fece: «Nome?».

«Garibaldi, Ricciotti Garibaldi». «Di?» Il povero Ricciotti ebbe un sussulto: «Come dice?». E l'impiegato, spazientito: «Di? Favorisca le generalità di suo padre!». E i figlio dell'Eroe dei Due Mondi, sconsolato: «Fu Giuseppe...»

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