Le garibaldine vicende di due eroici traditori

Le garibaldine vicende di due eroici traditori

Condivido in pieno la sua risposta al sig. Laricca riguardo a Horatio Nelson: il Caracciolo traditore fu e traditore rimane, anche se poi ne è stato fatto un martire e gli è stata intitolata una via di Napoli (la storia la fanno i vincitori, o almeno ci provano). Ma vorrei mi dicesse qual è, secondo lei, il motivo di questo debole di tanti personaggi napoletani per la gente che viene dal nord. Infatti, sessant’anni dopo, altri ufficiali borbonici, dell’Esercito e della Marina, si vendettero ai piemontesi (per non parlare dei funzionari, basti ricordare il famigerato doppiogiochista Liborio Romano), contribuendo in maniera determinante alla definitiva caduta del Regno di Napoli. Fu soltanto questione di vile denaro?
Giuseppe Pallini e-mail

Non so, caro Pallini, se fu solo questione di vile danaro, ma la vicenda del generale Francesco Landi dà da pensare. Fu lui che a sbarco dei Mille appena avvenuto, con Garibaldi chiuso nella sacca di Calatafimi, le camicie rosse stremate e senza più cartucce, fece sorprendentemente suonare la ritirata. Avesse ordinato a un semplice battaglione di attaccare, l’epopea dei Mille finiva lì, in località Pianto di Romano. A cose fatte, ad annessione avvenuta, Landi si recò al Banco di Napoli per riscuotere la polizza di 14mila ducati che rappresentava il prezzo del tradimento. Quando il cassiere gli disse che il documento era stato falsificato e che la cifra da riscuotere si limitava a 14 ducati, al generale venne un colpo e morì imprecando contro “quel ladro di Garibaldi”. E Giuseppe Ghio? Era quello che sventò a Sapri (località ben nota per le sue spigolatrici) il colpo di mano di Pisacane. Tre anni dopo, a Soveria Mannelli, pur essendo al comando di 10mila uomini si arrese a un migliaio di garibaldini male in arnese. Una volta entrato in Napoli, don Peppino Garibaldi lo designò comandante della piazza. Problemi di coscienza, zero: Ghio ripose la divisa borbonica e indossò quella piemontese come se niente fosse. Ma non godette a lungo dei benefici ottenuti tradendo: una sera fu trovato morto ammazzato ai Ponti Rossi, sotto le arcate dell’Acquedotto romano. Nell’agonia del Regno le diserzioni non si contarono, in terra come in mare dove, per dirne una, issata la bandiera bianca il comandante di fregata Amilcare Anguissola si consegnò con la sua nave, la “Veloce”, all’ammiraglio Persano (per riscattare il nome della famiglia, i fratelli di Anguissola chiesero, e ottennero, di combattere in prima linea).
Liborio Romano no, non credo che abbia tradito per soldi. Tradì perché “Ccà nisciuno è fesso”, motto che potrebbe benissimo figurare, assieme al longanesiano “Tengo famiglia”, nel bianco del tricolore. Quando Francesco II partì per Gaeta (dove il suo esercito, quello di “Franceschiello”, diede, come lo diede a Civitella, filo da torcere ai piemontesi di Cialdini, lo stesso che nel proclama ai soldati aveva liquidato il borbonici quale “masnada di briachi”. Viva l’Italia!), chiamò Romano, suo ministro che sapeva funambolo del doppiogioco e gli disse: “Don Libo’, guardateve ’o cuollo”. E Romano: “Starò accorto che ci rimanga il più a lungo possibile, maestà”. Mezz’ora dopo telegrafava all’“invittissimo generale” Garibaldi sollecitandolo “a giungere in fretta ché la popolazione tutta attende il Salvatore con la maggior impazienza per salutarlo redentore d'Italia”. Sono stato a Patù, città natale di Liborio Romano. La sua tomba è spoglia, una pietra tinteggiata a calce con nel mezzo il suo nome, tracciato col pennello. Sulla facciata del palazzotto che fu della famiglia si legge questa lapide: “Nella dolorosa maturazione degli italici destini - Liborio Romano - persecuzione carcere esilio - serenamente accettò - l’anima affisa alla futura patria grande - nella attesa ora della riscossa - ad altissime responsabilità assurto - seppe - sprezzando lusinghe ambizioni calunnie - preservare la sua terra da cruente lotte fratricide - Nel centenario dell’Unità - la sua Patù orgogliosa ricorda - qui ove nacque e morì”. Sprezzando lusinghe, ambizioni e calunnie: un po’ eccessivo, tenendo conto di chi fu lo sprezzatore. Ma è passato tanto di quel tempo che conviene sorriderne. Oltre tutto i don Libo’ venuti dopo sono peggio, molto peggio, dell’originale.

Che quasi quasi vien da rimpiangere.

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