Gian Micalessin
da Gaza
Quant'è una Brigata? A Gaza per farne una bastano ormai due signori in divisa, qualche cappuccio nero, tre kalashnikov d'ordinanza, un militante barbuto e silenzioso dall'aria truce, e un portavoce con cellulare e megafono. Oggi sul marciapiede intasato di folla è la volta delle Brigate Abu Rish, ennesima scheggia impazzita dei «Martiri Al Aqsa». Del vecchio capo morto e sepolto è rimasto solo il nome, ma loro non mollano. Son gente di Rafah, teste dure arrivate dal sud. Han perso l'attacco al Parlamento di sabato, ma non rinunciano a dire la loro. «Chiediamo - strilla il portavoce Abu Mohammed - le dimissioni del comitato centrale di Fatah, i nostri dirigenti devono pagare per i loro errori, devono impegnarsi a non entrare in nessun governo di Hamas, noi siamo qui con voi, pronti a buttarli fuori dal partito e a punirli se collaboreranno con i vincitori». Per ogni nuova telecamera o microfono Abu Mohammed riavvolge il nastro e il proclama riparte. Ai punti e alle virgole ci pensano i kalashnikov puntati al cielo dei suoi colleghi di parata.
A due isolati di distanza manifestano e protestano gli ineffabili uomini della valorosa marina palestinese. Addobbati con giberne nere, mimetica grigia e impenetrabili occhiali scuri fronteggiano una quindicina di loro simili equipaggiati alla stessa identica maniera, ma al soldo della cosiddetta Sicurezza preventiva. Gli incavolati marinaretti palestinesi hanno, chissà perché, il sospetto di venir considerati inutili e il timore di ritrovarsi senza stipendio. Tra una raffica di mitra e l'altra al cielo i gemellini della Sicurezza preventiva li squadrano in cagnesco e li allontanano dai cancelli della residenza di Mohammad Dahlan. Il loro vecchio capo, ormai consigliere per la presidenza, è corso a Ramallah al desco dello sconsolato presidente Mahmoud Abbas. Insieme devono decidere come arginare il caos, come fronteggiare la rabbia generata dalla sconfitta e se partecipare al futuro governo targato Hamas. Ma prima di tutto devono capire se il presidente possa sopravvivere ad un tuffo nella rabbia tignosa di Gaza. Da queste parti, gira voce, qualcuno ha già pronta la pallottola con il suo nome. Ma la stessa voce insinua che l'ispiratore dal complotto potrebbe - in queste ore - non sedere lontano dalla vittima predestinata. Sul nome di Dahlan circola - insomma - tutto e il contrario di tutto. «Lui, quell'infame, è il principale responsabile di questo casino», urla rabbioso Ahmed Ellas. Nel giardino di casa sua s'è appena conclusa una riunione di tutti i gruppi armati legati o apparentati a Fatah. E a giudicare dai piatti rovesciati, dagli avanzi di cibo, dai bicchieri mezzi vuoti, i comandanti convocati al banchetto superavano ampiamente la cinquantina.
Ahmed Ellas è il segretario generale di Gaza, l'uomo che da cinque anni sovrintende come una palestinese dea Kalì alle attività dei mille bracci armati di Fatah. Suo figlio Mohammed, un ragazzino di 16 anni ritratto con il mitra in mano, il sorriso da martire eternamente felice sulle labbra e l'immancabile moschea di al Aqsa alle spalle, ha già donato la vita alla causa paterna. Non è passato neppure un anno, ma oggi il principale nemico di papà Ellas è solo l'«infame» Mohammad Dahlan. «Quello lì fa tutto per interesse, ha organizzato l'attacco al Parlamento, è corso in piazza a fingere di calmare i miliziani pagati con i suoi soldi e oggi è volato da Abu Mazen a baciargli le mani e giurargli fedeltà. Ma il vero nemico è lui. È lui che punta alla poltrona del nostro presidente. Per lui la sconfitta di Fatah è solo un'altra scorciatoia per il potere, ma ormai lo conoscono bene. Credimi, stavolta non andrà lontano».
Nello sgangherato pandemonio generato dal terremoto elettorale la rilassata vittoriosa pacatezza di Hamas rifulge come un esempio di moderazione. «Quelli s'ammazzano per un posto da sconfitti e loro - filosofeggia il mio tassista - manco celebrano la vittoria per non dare l'impressione di seminar disordini. Uno come può aver esitazioni tra chi scegliere».
Serrato in casa in attesa della discesa a Canossa dello sconsolato presidente Mahmoud Abbas, il numero uno di Hamas, Mahmoud Zahar, snocciola distillati di saggezza e moderazione ai giornalisti appostati all'uscio. «L'America ha in mano le chiavi della pace in Medio Oriente: dateci la possibilità di vivere come esseri umani, implora oggi il capo fondamentalista.
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