Mondo

Gaza, soffocata l’ultima resistenza Una donna si dà fuoco per protesta

La disperazione a Gush Katif: «Abbiamo fallito, le colonie sono cadute»

Gian Micalessin

da Neve Dekalim

L'ultima battaglia è agli sgoccioli. Neve Dekalim, capitale delle colonie, non è ancora caduta, ma la resa è vicina. Loro, i soldati in verde e gli Yasam, i terrificanti poliziotti in divisa nera, sono ovunque. Hanno conquistato le entrate, il centro, i viottoli. Comandano loro. Lo ammette persino Shaul Goldstein, membro del Consiglio dei Coloni: «Abbiamo fallito, le colonie di Gush Katif sono cadute». Qui, a Neve Dekalim, 210 delle 470 famiglie hanno già abbandonato il campo la notte di martedì. Altri le hanno seguite ieri mattina. E in serata si sono arresi anche i venti estremisti religiosi dello Chabad che - asserragliati in un rifugio antibomba - minacciavano di far esplodere le bombole del gas.
Ora il centro della resistenza arancione, il simbolo delle colonie di Gush Katif, è ridotto a una cinquantina di case occupate e alla sinagoga con i suoi ragazzini agitati. Sono gli ultimi covi degli irriducibili, le ridotte ancora da conquistare. Ma la vittoria per Yasam e i militari è vicina. S'incomincia poco dopo l'alba. I militari israeliani scendono dai camion, controllano le mappe delle abitazioni visitate nella notte. Poi le processioni dell'addio sfilano nei vialetti tra bouganville e aiuole abbandonate. C’è una villetta bianca deserta. Dietro, gli Yasam: i cattivi. Dalle finestre e dalla strada volano gli insulti: «Assassini, Gestapo, nazisti».
Davanti avanzano a testa bassa i negoziatori, i soldati buoni, padri di famiglia, anziani riservisti. Hanno capelli grigi e stomaco che si rivolta. «Lavoro di m...», sospira il vecchio tenente Ariel. E intanto tira il fiato. Siamo nel giardino. Lui davanti, giornalisti e altri soldati dietro. Fermo all'entrata il codazzo tenebroso di Yasam. Ariel bussa. Una, due, tre volte. Nessuno risponde. Attende, ribussa. La quarta volta sono quattro sganascioni sulla porta e un sospiro scocciato dall'altra arte. Rumori di passi sulle scale. L'uscio s'apre lento, una fessura, una voce, un fraseggio smozzicato dietro il buio. Ariel infila una mano, la spalanca piano. Poi fa un passo indietro.
Ora lui è comparso, è un lupo disturbato nella sua tana. Ha un bimbo di un anno in braccio, lo sporge in avanti, oltre l'uscio, come il simbolo della vergogna. Lo butta sul volto di Ariel. Dietro una soldatessa ragazzina si fa largo. È pronta a raccogliere, afferrare la creatura. Lei s'avvicina, lui ringhia come una bestia ferita. Insulta un cameraman, lo fa indietreggiare. Poi scende, il bimbo sempre in braccio. Ringhia in faccia ad Ariel, ringhia ai giornalisti. Quel bimbo sembra una creatura prensile, un prolungamento del suo braccio. «Cosa fate qui? Volete la mia casa? Volete la mia carne? Volete i miei figli? Siete come i nazisti, avete le divise nere delle Ss. Volete disegnare la stella gialla sulla porta? Fatelo, siamo pronti, vi do tutto, vengo io, vengo con mio figlio. Siete ebrei e bevete il sangue di altri ebrei».
Il bimbetto terrorizzato butta lacrime come una fontana, le manine disperate aggrappate alla maglia del lupo inferocito. Lei, la soldatessa, si piglia uno spintone dalla madre. «Via Gestapo, via, via i giornalisti, via i soldati da casa mia. La gente è morta per questa terra e voi venite a rubarci tutto, vergognatevi, non siete degni di chiamarvi ebrei». La ragazza cerca di spiegare, parlare. Lei, Erinni disperata, le sputa in faccia rabbia e disprezzo. La ragazzina in uniforme alza le mani agli occhi, grida basta, scoppia in singhiozzi, scappa via. Un'altra la consola. Il marito volteggia con il bimbo. Ariel, i militari e i terribili Yasam per ora rinunciano.
La strategia è lasciarli passare dalla rabbia alla rassegnazione. Poi sarà più semplice. E soprattutto meno pericoloso. Lo si capisce due ore dopo a Kisufim, il valico dove sostano i bus con a bordo gli evacuati. Lì una donna di sessant'anni si cosparge di benzina, si dà fuoco. Quando tentano di aiutarla, le fiamme sono già alte. Lei è in condizioni disperate con il 60 per cento del corpo bruciato.
Intanto a Neve Dekalim militari e Yasam fanno piazza pulita dei mocciosi in maglia arancione, i ragazzini infiltratisi a migliaia negli insediamenti. Per i militari sono come mosche. Attaccano, insultano, scherniscono, distraggono. I soldati isolano i più riottosi, si buttano in cinque sulla vittima prescelta. Uno la blocca, gli altri le afferrano una gamba e un braccio, la trascinano all'autobus. Uno dopo l'altro ne portano via quasi un centinaio. Svuotare le abitazioni, invece, non è facile. Neanche per quei cuori di pietra degli Yasam è semplice portare via chi resiste. Soprattutto se è donna e non ha nessuna voglia di farsi spingere sugli autobus dell'addio.
Lei avrà 40 anni, ha i capelli rasati delle credenti più ortodosse, lo sguardo da belva ferita. Le soldatesse l'hanno tirata fuori dalla cantina e ora, poverette, devono trascinarla all'autobus. Ma sono ragazzine di diciotto anni. «Fareste questo a vostra madre? Potrei essere io e voi dite persino di pregare il mio stesso Dio». «Ti prego - sussurra una - facci fare il nostro lavoro, ti portiamo solo fuori, non vai in prigione». «Sono già in prigione, sono morta, fra tre giorni è shabbath, come ti sentiresti senza più una casa, senza un posto dove pregare con i tuoi figli?».

Loro chiudono gli occhi, serrano i denti e pregano Dio che domani sia veramente l'ultimo giorno.

Commenti