Genova matrigna con la voce che non canta a sinistra

Genova matrigna  con la voce che non canta a sinistra

Raffaella Della Bianca segnala un altro caso eccellente di applicazione del principio di «esclusione a Destra» questa volta perpetrato nei confronti de «il Giornale» e del suo egregio Direttore che è stato ricusato dal Pd come moderatore di un dibattito in quel di Sestri Ponente (antica cittadella rossa in preda a continui smottamenti).
Diciamo francamente che non c'è (a Genova) nulla di nuovo sotto il sole. Se è così potremmo anche glissare sull'evento in nome di un'abitudine che abbiamo imparato a sopportare, nostro malgrado. Invece il fatto in sé (limitato quanto si vuole) è il simbolo (o più modestamente la cartina di tornasole) di tutto un clima dal quale la nostra città è afflitta e condizionata in negativo.
La questione è delicata più di quanto non si pensi. È da un pezzo che mi chiedo: fin dove è colpa della forma politica che negli ultimi decenni ha governato Genova e quale è la responsabilità più antica e, forse, perenne di un costume locale che finisce per essere un po' la forma mentis di gran parte dei nostri concittadini? È evidente che gli effetti di entrambi si saldano più o meno armonicamente e producono un fenomeno negativo che in certi momenti può rasentare l'asfissia.
Genova dunque, per chi non è di sinistra, più che madre è matrigna. E questo suo essere matrigna è un dato di fatto che si trascina da tempo (qualcuno per precisione arretra il punto di svolta al 30 giugno 1960, piuttosto che spostarlo al '68 o alla nascita della prima giunta di sinistra in Comune nel 1976). C'è poco da scherzare: il controllo democratico e antifascista nel senso inteso dalla sinistra ha pervaso questa città per un periodo di tempo tale da poterla conformare alle proprie esigenze di governo e di dispotismo secondo un cliché di tipo mediterraneo. Quello che, appunto, ho denominato «camorra soffice», cioè «rete occhiuta di combinazioni di potere - governo e sottogoverno spinto in maniera analitica verso il basso - lontana dagli eccessi sanguigni del nostro mezzogiorno (e quindi più conforme al carattere stesso genovese e ligure)».
Si pensi, per esempio, all'area dell'informazione (dai mass media alle agenzie fino alle case editrici, esclusa qualcuna marginalissima) e a quella rete interessante e intrigante di accordi e di ricatti (nell'ambito del mondo della produzione) dove i sindacati sono la cerniera (o la cinghia di trasmissione) politica.
L'antica arte genovese dell'«arrangiarsi» nei suoi molteplici aspetti è stata coartata e finalizzata alla stabilità di un equilibrio di potere che ha qualificato la nostra città come la più antiliberale del Nord. Ora, è facile obbiettare da parte di qualcuno che la politica per quanto realtà essenziale e dunque importante non è mai così profondamente incisiva nel modellare secondo le proprie concezioni una realtà che tende ad essere (in maniera talora implicita, talora esplicita) piuttosto riottosa nei confronti degli interventi esterni alle proprie regole naturali e artificiali che la caratterizzano. Purtroppo la nostra città nel suo profondo decadere economico e sociale (i terribili anni '80) è stata inevitabilmente disponibile ad accogliere una forma politica apparentemente rassicurante e lì per lì proponentesi come capace di risollevare la città stessa, garantendole attraverso forme assistenziali e clientelari una dignitosa sopravvivenza.
Oggi c'è da chiedersi se la medicina, cioè il rimedio, non siano stati peggiori del male. Nel senso che si fatica enormemente ad uscire da questa situazione che si è consolidata nel corso degli anni. Uscire dagli scampoli di «socialismo reale» alla genovese non è cosa da poco, perché gli interessi massimi e minimi che si sono coagulati attorno a determinati equilibri politici di potere (governo e sottogoverno) fanno «resistenza». D'altra parte una classe media non particolarmente robusta, irrorata di lavori (anche fittizi: progetti mai destinati a realizzarsi) ha portato le cosiddette «libere professioni» ad allinearsi politicamente con una certa facilità, concorrendo così in modo specifico a rendere più grigio il panorama. Genova è per eccellenza la città dell'«eterno» dopoguerra, dei sentimentalismi ideologici «pauperistici» (Don Gallo & TG3) dove, con buona pace dei celebratori del nostro passato, l'atteggiamento del «maniman» non ha mai fine.
Oggi l'unica via d'uscita possibile, destinata a porre delle premesse da approfondire e sfruttare fino al fondo delle possibilità offerte, è quella di una convincente svolta politica sia in Regione sia nel capoluogo.

La sensazione è che noi tutti, in proposito (per molteplice cause e per una straordinaria malignità di fortuna), abbiamo perso un tempo lungo (che psicologicamente lo è ancora di più). Dobbiamo uscire da questo tunnel e incamminarci per una strada diversa.

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