Genova, nei quartieri di Allah gli italiani vivono nella paura

Gli immigrati hanno occupato tutte le strade del centro storico. I cittadini: «Ci trattano con arroganza»

Paola Setti

da Genova

Vedi il centro storico e capisci perché il ponente ha paura. Bisogna venire qui, nel dedalo buio dei «caruggi», per raccapezzarsi delle proteste, un intero quartiere di periferia, Cornigliano, che da sempre vota a sinistra, ma che adesso contro la sinistra è sceso in piazza per dire no alla moschea, gridando così forte da aver costretto la Comunità islamica e il Comune a trovare un luogo diverso, purché lontano dalle abitazioni e da qui.
Vedi il centro storico e capisci. Perché è qui che vivono e pregano i musulmani adesso, fra la via del Campo che cantava Fabrizio De André e che non esiste più, l’antica via Pré che sta sopra al porto e all’integrazione è abituata, «ma qui ormai siamo noi che ci dobbiamo integrare» dice un commerciante, e giù fino al porto antico, lì il lamento s’è già fatto scontro. È sabato mattina, ma le saracinesche dei negozi italiani sono abbassate. «Hanno chiuso da mesi ormai - dice un “sopravvissuto”, titolare di un negozio di alimentari in via del Campo -, perché qui l’unica è chiudere o stringere i denti, ma i denti prima o poi si spezzano». Racconta degli extracomunitari che «vengono a guardare i miei prezzi per abbassare i loro», spiega che l’unica «è mostrarsi duri, perché sono arroganti: danno ordini, non chiedono», lamenta che «qui ormai è tutto in mano loro, ma nessuno di loro paga le tasse: quella che ora è una macelleria fra un mese venderà abbigliamento. Cambiano nome e gestione spesso, per non pagare mai». I genovesi da queste parti non ci mettono più piede. «Hanno paura di noi e la colpa è nostra» dice Alì, che in via Pré vende artigianato etnico. Lui si è integrato, suo nipote ha il negozio a fianco, vende magliette del Genoa, segnale di apertura. «Ma i genovesi girano al largo e hanno ragione: i miei connazionali fanno cose che a casa loro non farebbero mai. Magari non abitano nei vicoli, ma lo stesso vengono qui, si ubriacano, sporcano, scippano, spacciano». Poi prendono l’autobus e se ne vanno, bisogna vederlo il bus notturno, brutte facce. Dice Alì che «i musulmani non hanno paura di niente se non di Dio, e quindi le assicuro che la moschea è il luogo più sicuro che esista, perché chi ha cattive intenzioni alla casa di Dio non si avvicina». I genovesi non si fidano. Ci sono due sale qui dietro, in un vicolo sporco in cui non passi se non hai la sfortuna di abitarci, dove i musulmani vanno a pregare, cinque volte al giorno come dice il Corano. È troppo piccolo per tutti, e così i fedeli invadono la piazzetta di fronte, gli altoparlanti a diffondere la voce dell’Imam, i teloni a riparare dalla pioggia, gli armadietti per lasciare le scarpe. «Questi musulmani fanno con i loro altoparlanti quello che tra un po’ non è consentito fare alle campane delle chiese - attacca ormai da anni Rita Paglia, rappresentante dei comitati del centro storico -. Qui mancano le condizioni igienico-sanitarie e il rispetto delle normative di sicurezza. Se di venerdì vuoi scaricare o caricare da uno dei tanti magazzini della zona, ti devi picchiare».
Serve un luogo di culto più grande, l’imam Salah Hussein sta trattando con i frati per costruirlo a Campi, nel ponente, poco distante da Cornigliano. Trattativa difficile, a pagare sarebbe l’Ucoii, i preti genovesi sono insorti contro questa ipotesi. E la gente del centro storico avverte: «Un centro più grande è pericoloso, perché è più difficile da controllare. Secondo lei perché vogliono moschee ovunque? È la tela di un ragno».
È un’immensa casbah, il centro storico. I problemi, spesso sono legati all’ordine pubblico. L’altra sera giù al porto c’è stata una retata in forze, con decine di camionette dei carabinieri. Erano andati a sgomberare quello che uno sfacciato cartello indica come «mercato marocchino», peccato sia completamente abusivo. È un déjà vu, dice però la gente che qui ci vive e ci abita: «Domani saranno di nuovo tutti qui». Sono in duecento, tutti marocchini, fanno affari anche con gli italiani. Stendono lenzuoli e vendono di tutto, persino manganelli telescopici. I telefonini e le autoradio li rubano, le scarpe e i vestiti usati li trovano nella spazzatura. Facendosi beffe di tutti, si son scelti un luogo impagabile, nel senso che non ha prezzo, lì fra i «gioielli della città»: uno slargo proprio a fianco del prestigioso palazzo San Giorgio, sede dell’Autorità portuale. Di fronte c’è l’area dell’Expo quella disegnata da Renzo Piano per le Colombiane, quella dell’Acquario e dei turisti. Girato l’angolo c’è via San Lorenzo, quella della cattedrale, quella che porta a Palazzo ducale che fu dimora del Doge e alla centralissima piazza De Ferrari. Qui, la sola convivenza fra extracomunitari e italiani s’è cementata in nome della ricettazione e dello spaccio di cocaina.
Tutto avviene alla luce del sole. Basta osservare e si può anche fotografare, come hanno fatto residenti e commercianti senza più pazienza e con le armi spuntate, perché «tanto ormai sono loro i padroni». Si fronteggiano a un metro di distanza, di qua l’area demaniale occupata dalla casbah, di là la zona comunale dei negozi sotto i portici, rabbia e paura e impotenza. Hanno messo foto e proteste in un dossier che hanno mandato a istituzioni e forze dell’ordine. Sono tanti, tutti, solo i cinesi non ne han voluto sapere del dossier. Ma guai a pubblicare i loro nomi, di lucchetti chiusi con l’attack, sputi in faccia e minacce col coltello ne hanno già avuti abbastanza. Ne hanno ogni giorno, in verità. Alzare la saracinesca al mattino è un’avventura: devi chiedere ai bivaccanti di spostarsi e quelli rispondono a insulti, parlano arabo e se gli chiedi di tradurre ti rispondono che sei tu, che devi imparare la loro lingua. Attirare clienti il pomeriggio è un’impresa, perché risse e regolamenti di conti si sprecano e allora i genovesi tirano dritto e i turisti girano alla larga. Tornare a casa la sera poi è un’incognita, dopo le 20 qui è terra di nessuno. Il giorno peggiore è la domenica, i bar hanno rinunciato ad aprire. La certezza che il fenomeno è destinato solo ad aggravarsi la si è avuta un brutto giorno di agosto, era il giorno dopo l’indulto ed era tutto un baciarsi tre volte sulle guance, il segno del “ritorno”.
Lamenta la gente che è un circolo vizioso: «Il 113 ti rimanda al 112, il 112 ai vigili, i vigili al 113, e alla fine non arriva nessuno». Replica la polizia che i pattugliamenti ci sono e non sono neppure facili, vàttici a trovare in due in mezzo 200 marocchini che ti prendono a calci l’auto. Ammettono al commissariato di zona che è una battaglia persa: delle divise se ne fregano, i marocchini, quando le vedono arrivare scappano nei vicoli del centro storico più grande d’Europa, dopo un quarto d’ora tornano. «Sono troppi e si divertono a sfidarci - spiega il vicedirigente Giacomo Turturo -. È come chiederci di svuotare una piscina con un bicchiere di carta». Si gioca a guardia e ladri, e non serve. La gente chiede un presidio fisso delle forze dell’ordine, ma non è la militarizzazione la via che intende seguire il Comune. In verità, il Comune non sa che pesci pigliare. La casbah davanti al porto antico esiste da quando hanno chiuso i cantieri del G8. E il G8 porta la data lontana del 2001. Cinque anni e la giunta ne ha parlato per la prima volta solo in questi giorni, e solo perché di mezzo c’è la questione della moschea.
Così, l’assessore allo Sviluppo economico Mario Margini, ds doc e probabile futuro sindaco, prova a dire una cosa di destra: «La non tolleranza con gli abusi è la sola via per una convivenza civile». Poi però dovrà fare cose di sinistra, e così siamo punto e a capo: «In quello slargo dovremmo mettere attività pulite, un ristorante, un laboratorio di artisti». Ma l’Autorità portuale non ne vuol sapere. Non che ci convivano bene, con la casbah, i vertici di palazzo San Giorgio. Lo schermo del guardiano all’ingresso riprende il punto esatto in cui i marocchini hanno creato la loro personale «turca», due sassi sotto il tubo della grondaia. I dirigenti han dovuto cambiare portone di ingresso, per non rischiare di calpestare tappeti e provocare reazioni violente.

«Voglio quel piazzale libero, senza attività di alcun tipo - avverte però il presidente Giovanni Novi -. Per questo ho chiesto ai miei architetti di disegnare una cancellata in ferro battuto, leggera». L’ultimo progetto il Comune lo aveva bocciato: il cancello era troppo brutto per quell’area così bella.

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