A Genova il profeta rinasce con la tecnologia

Dicono i curatori che «una mostra così non si era mai vista». Dicono le istituzioni genovesi che «una mostra così non si era mai vista». Dice Dori Ghezzi che «una mostra così non si era mai vista». E, fin qui, ci sta, ci sta tutto. Non s’è mai visto un oste che non elogia il suo vino.
La notizia, stavolta, è che è vero. Che l’esposizione di Palazzo Ducale dedicata a Fabrizio De André è davvero qualcosa di mai visto. Nulla a che vedere con le mostre tradizionali, anche le più belle, dove lo spettatore, vede, respira, ammira e passa al quadro, alla foto, alla sala successiva. Ma, comunque, resta soggetto passivo dell’esposizione. Con il valore aggiunto delle emozioni, certo. Ma soggetto passivo.
Qui - come forse è anche naturale con De André che a ribaltare le prospettive più ovvie e facili ci ha passato tutta la vita - il discorso è radicalmente opposto. A fare la mostra è direttamente lo spettatore: che sceglie i dischi, i tarocchi, i momenti storici che vuole approfondire, le fotografie, i filmati di Faber ed interagisce in continuazione con i materiali della mostra. In modo che, come spiegano gli organizzatori, ognuno torna a casa con il «suo» De André.
E anche qui, sul concetto di tornare a casa, c’è una rivoluzione copernicana rispetto al tradizionale concetto di mostra. Che, di norma, si vede una volta sola. Magari approfonditamente, ma una volta sola. Invece qui - fin dall’organizzazione della biglietteria con abbonamenti per più ingressi e prezzi decrescenti, inversamente proporzionali al numero di visite della mostra - la norma sognata dalla Fondazione per la Cultura di Genova è quella di più di una visita. E, al di là del loro legittimo interesse a staccare un maggior numero di biglietti, è umanamente impossibile cavarsela con una sola visita se si vuole veramente apprezzare il De André di Palazzo Ducale. Che apre oggi (dalle 21 alle 3, in abbinamento all’esposizione su Lucio Fontana, allestita nelle sale vicine) e resta a Genova fino al 3 maggio, tutti i giorni esclusi i lunedì dalle 9 alle 20.
Detto quindi che è impossibile sintetizzare De André e anche semplicemente la mostra su Fabrizio in un articolo e detto che è anche impossibile raccontarla, ma che va vissuta, forse il modo migliore per spiegare quello che accadrà a Genova da oggi è quello di affidarsi a due citazioni. La prima è di Ivano Fossati che con Faber lavorò, si confrontò e si scontrò in Anime Salve. Quando qualcuno notò che se Creuza de ma’ - il viaggio insieme a Mauro Pagani fra la Città Vecchia e il Mediterraneo - fosse uscito tre anni dopo, in pieno boom della musica etnica e dei suoni di Peter Gabriel, sarebbe stato «a tempo» e forse avrebbe venduto il triplo, Fossati rispose: «Se si fosse limitato ad andare “a tempo” non sarebbe stato De André».
La seconda citazione è quella scelta dai quattro curatori della mostra - Vittorio Bo, Vincenzo Mollica, Pepi Morgia e Guido Harari che hanno contato sul progetto multimediale dello Studio Azzurro - per introdurre le note sull’esposizione: «Non chiedete a uno scrittore di canzoni che cosa ha pensato, che cosa ha sentito prima dell’opera: è proprio per non volervelo dire che si è messo a scrivere. La risposta è nell’opera». E la firma, stavolta, ovviamente, è di Fabrizio.
Insomma, ribadisco, non stiamo parlando di una mostra convenzionale. Sarebbe l’offesa peggiore che si potrebbe fare a De André. Poi, è una mostra che può piacere o meno (a me, per quel che può contare, piace moltissimo), ma certo non convenzionale. Soprattutto, è una mostra che evita certe cadute retoriche che spesso hanno accompagnato alcuni ricordi di Faber in questi dieci anni senza di lui.
Anche le istituzioni genovesi, meritoriamente, per una volta evitano di trasformare la conferenza stampa di presentazione in uno spottino del politicamente corretto. Luca Borzani, che è il padrone di casa di Palazzo Ducale, parla di «abbraccio dieci anni dopo, non di agiografia»; il presidente della Regione Liguria Claudio Burlando annuncia la concessione alla Fondazione De André, per la sua sede, di Palazzo Grillo, una delle splendide residenze nobiliari dei Rolli; Marta Vincenzi, sindaco di Genova, ricorda la radicalità anarchica di De André e la sua ribellione al potere, senza bollini di partito. Poi, torna alla notte del 12 marzo 2000 e alla serata Faber Amico Fragile al Teatro Carlo Felice, «il più importante concerto di sempre, forse non solo in Italia» si commuove ancora Dori Ghezzi, auspicando un bis per questa mostra.


Poi, c’è Genova, «sua mamma, Fabrizio la considerava così» (Dori), «la città che insegna più di tutte a convivere con il diverso», «la città della contaminazione», «la città degli ultimi». Ma qui ogni parola, persino di Faber, è di troppo. Basta uscire da Palazzo Ducale e vedere la bellezza straniante di Genova. Non serve altro.

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