Palazzo Rosso, quel museo così maltrattato

(...). Ma è la cornice, ovvero la stanza, che accoglie quelle che dovrebbero essere considerate opere d'arte da custodire con cura e premura a non essere all'altezza dei dipinti. In nulla. I muri sono sporchi e scrostati, le tende ai finestroni logore e polverose. Eppure ci sono anche tele prestigiose, come quelle di Guido Reni e di Giulio Cesare Procaccini nella sala 4 che altrove verrebbero trattate con ben altra considerazione e invece qui, nella stanza numero 5 «Il padre eterno con angioletto» del Guercino resta lì appeso ad una parete di crepe.
Il sistema di illuminazione è datato, oltre che poco funzionale: lampade immense che sporgono da ingombranti bracci di ferro incastrati nel muro e che sparano la luce sui dipinti senza alcun riguardo a dove puntare il faro, diventando quasi più un fastidio per chi osserva il quadro che un'agevolazione. Nelle sale 6 e 7, le luci sono perfino rotte e i dipinti restano al buio. Nella stanza 7 Bernando Strozzi l'hanno spostato e lasciato lì solo abbandonato, mentre accanto a lui ci sono ancora i segni della vecchia cornice nella sua vecchia postazione. Senza alcuna cura. Chissà cosa direbbe la Duchessa...
Una sedia sfondata e polverosa, da sola in mezzo alla sala, indica che siamo alla camera numero 9. La desolazione è la stessa: muri scrostati, tende usurate, illuminazione pessima e targhette accanto ai dipinti vecchie come mai. Si prosegue, sala 10 e 11. Qui i segni e i buchi sono stati coperti in qualche modo con delle manate di vernice che sono ancora ben evidenti. Sala 13, 14: un quadro penzola di sbieco da un filo, posticcio, decadente come il contesto in cui è inserito. Lasciamo il primo piano, i suoi quattro custodi. Facciamo un rapido conto delle persone che abbiamo incrociato in una mattina: visitatori a parte noi, zero.
Al secondo piano ci accoglie anche qui un addetto che indica il percorso corretto. Camminiamo su un tappeto di moquette rossa che nella sala Gregorio De Ferrari, così come nelle altre, è ridotta in condizioni pessime. Bucata, sporca, calpestata, usurata. Di più, nella sala che spesso viene adibita a conferenze, hanno tagliato malamente la moquette sotto alle prime file delle sedie, forse per lasciar intravvedere le decorazioni del pavimento sotto. Forse.
Le pareti in questa ala di Palazzo Rosso sono state coperte da una tappezzeria grigia che dopo anni, almeno a giudicare lo stato in cui è ridotta, è una parete di macchie, mangiata dall'umidità e dalla sporcizia. Lungo gli zoccoli della stanza, i segni di acqua, infiltrazioni, sporco e dell'abbandono.
Il «Ritrarro di Paolina Bringole Sale» di Van Dyck anche questo come altri quadri nelle sale precedenti, è stato spostato dalla sua vecchia posizione, ma nessuno ha pensato di adattare il raggio di luce che continua ad illuminare il muro vuoto e l'ombra della vecchia cornice.
Nella sala 20 i dipinti sono in mezzo ad un groviglio di fili elettrici che pendono dall'alto fino ai piedi, le prese rattoppate in qualche modo con lo scotch, tende logore e strappate alle finestre, macchie sulla tappezzeria. Per segnalare ai visitatori che la sala successiva è inaccessibile, sulla soglia hanno messo una poltrona a sbarrare l'ingresso. E su una finestra laterale, tre manici di scopa attaccati uno con l'altro con del nastro adesivo servono a tenere chiusa la persiana. Se lo vedesse la Duchessa...
Nella sala 33 con le statue di Tomaso Orsolino, per terra i fili elettrici sono talmente tanti che creano una vera e propria matassa di cavi, con tanto di ciabatta in bella mostra come fosse un corredo all'arte che vi sta intorno. La sala 30 è buia e un improbabile taglio della tappezzeria alla parete vuol mettere in evidenza un affresco. Ma non si riesce a capire cosa sia, per mancanza di illuminazione adeguata, di una targhetta e perché il taglio sopra la porta che conduce alla stanza successiva è talmente grossolano e grezzo che nessuno penserebbe mai che dietro ci possa essere qualcosa di prezioso. La sala 22 è chiusa da una porta di cellophan. Andiamo avanti e per fortuna occhi e cuore respirano: siamo nelle stanze della Duchessa di Galliera aperte da poco, nemmeno un anno. Le uniche in cui si intravvede un barlume di cura nella disposizione e nella conservazione degli oggetti e del mobilio ottocenteschi appartenuti alla nobildonna. Lasciamo anche il secondo piano, il terzo è chiuso per lavori. Totale custodi 5. Visitatori, a parte noi: 0. L'addetto ci consiglia di andare sulla terrazza a guardare il panorama. Saliamo sul tetto di Palazzo Rosso, ed è una delle poche cose, se non l'unica che dà un senso alla visita di un museo completamente abbandonato a se stesso. La veduta su Genova è incredibile, grandiosa e spettacolare. Ma il merito di questo panorama incredibile non è certo del Museo.
Lasciamo il Rosso e passiamo al Bianco. Il primo piano del palazzo è dedicato al Seicento genovese, con i quadri di De Ferrari, Bernanrdo Strozzi: è tenuto decisamente meglio, senza alcun paragone con l'edificio precedente. I pavimenti in marmo sono puliti così come i muri, si cammina sulla pietra per fortuna e non sulla moquette di prima. Anche il sistema di illuminazione ha fatto passi avanti, e al posto dei cappelli ingombranti di Palazzo Rosso, qui c'è una fila di neon, più sottile e discreta. Le sale si susseguono una dopo l'altra, e sono tutte ben tenute. Prima del passaggio a Palazzo Tursi, attraverso il cortile e dei lavori in corso tra i due edifici, in un'ansa del muro c'è la Maddalena penitente del Canova. Peccato che sia troppo buio per ammirarla appieno. Totale visitatori, a parte noi: zero. Personale addetto, cinque.
A Tursi il giro è più rapido e anche qui per fortuna le sale sono in ordine e ben tenute.

Dopo quella degli arazzi, c'è la stanza con il Cannone di Paganini. Un gioiello donato a Genova dal musicista. Così come al pari di gioielli dovrebbero essere valorizzati tutti i Musei di Strada Nuova. Rosso compreso.
(1 - continua)

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