Quel giardino botanico ridotto a un cimitero di piante secche e rifiuti

Quel giardino botanico ridotto a un cimitero di piante secche e rifiuti

Scusi, state facendo una ristrutturazione particolare al giardino e alle serre? «No, sono sempre così». Così fatiscenti? «Beh, ora stiamo facendo le pulizie di primavera». Ma i tubi, la ruggine, lo sporco, le strutture a pezzi, i muri scrostati, quindi restano tali e quali? L’uomo con la tuta dell’Aster si toglie il cappello e accende una sigaretta. «Cosa vuole che le dica. Noi siamo qui in due, e lo vede quello che c’è da fare». D’accordo, ma sembra che questo posto non venga toccato da anni, non da giorni. Quante volte alla settimana venite a lavorare qui? «Tutti i giorni, tranne sabato, domenica e lunedì». Però, e la competenza di chi è? «Del Comune di Genova, sa com’è». Benvenuti al Parco Durazzo Pallavicini di Pegli, quello che i depliant alla reception indicano come «uno tra i più eccellenti esempi di parco romantico ottocentesco che l’Italia possa vantare» e che doveva vantare - il passato è d’obbligo - il giardino botanico Clelia Durazzo Grimaldi, fondato nel 1794, di cui sempre l’opuscolo racconta le magnificenze che furono. «Con sapiente maestria e scienza, la marchesa Clelia Durazzo giunse in pochi anni a collezionare circa 1.700 specie botaniche, come testimonia il suo catalogo edito nell’anno 1812. Un simile traguardo non fu mai più raggiunto, nonostante che, dopo molti anni di incuria, il Comune di Genova riprese a coltivare piante esotiche facendo tornare il giardino un luogo di cultura botanica. Oggi in esso si possono ammirare collezioni botaniche conservate a scopo prevalentemente didattico-divulgativo».
Benvenuti in questa oasi naturale, dove una delle immagini forse più esaustive di ciò che resta dell’antico splendore di un parco e di una villa, è un secchio nero e sporco pieno di calce, rifiuti e materiale di scarto accanto a quello che doveva essere il cartello d’informazioni e che ora invece sta ad ammuffire a terra: «Giardino botanico Clelia Durazzo Grimaldi», appunto. Benvenuti, o malcapitati verrebbe da dire, in una delle tante, tantissime bellezze di questa città completamente lasciate andare al loro destino, senza alcuna cura per il valore che esse rappresentano. Agli occhi di chi le vede e per il senso di bellezza che dovrebbero comunicare. Invece qui, il cuore si stringe e si fa piccolo, gli occhi si allargano dallo stupore. E la domanda è sempre, la stessa: ma come è possibile?
Il tour inizia dall’ingresso al parco, un viale alberato che costeggia la ferrovia da un lato e dall’altro si affaccia su un caseggiato. Poi si entra nel vivo del giardino botanico: il cartello dice che c’è il gruppo di palme esotiche più ricco di Genova. Lo sguardo si alza e la visita comincia con un pugno allo stomaco. Sulla scalinata che porta all’orto botanico, i gradini sono coperti da pezzi di intonaco del muro che cade a pezzi, bottigliette di plastica, secchi e cartelli arrugginiti. I vasi di piante sembrano appoggiati per caso ai lati delle gradinate, così come nelle altre aiuole e livelli che portano alle varie serre. I vialetti sono una prato di erbacce incolte. Se non fosse per la presenza fisica di un furgoncino di Aster, parrebbe di stare in un cimitero di piante morte che non vedono anima viva da lustri. Ma tant’è.
I cartellini che dovrebbero indicare il nome delle specie vegetali conservate - pregiate e rare, così come avrebbe voluto la marchesa Durazzo - sono rovesciati nella terra, rotti, sporchi o del tutto assenti. Intorno vasi di plastica, materiale di risulta nascosto goffamente in ogni angolo. Ma sono le serre la parte che più toglie il fiato. Le serre fatte costruire da Clelia Durazzo Grimaldi nei primi dell’Ottocento.
La struttura in ferro è uno scheletro di ruggine, ragnatele e polvere. Le piante grasse conservate all’interno sono in buona parte secche, circondate da carte di caramelle buttate per terra, stivali da giardinaggio abbandonati in mezzo a un’aiuola. Cartelli di informazioni vecchi e luridi, tubi, palette per i rifiuti, chiodi vecchi. Di tutto e di più.
Nell’acqua dello stagno c’è la muffa e sopra ancora piante, secche anche qui.
Il cammino prosegue. Si esce dalla serra delle piante grasse e si entra in quella delle felci. Lo spettacolo non cambia. Ai lati del terrazzino d’ingresso, una transenna di ferro e delle scale appoggiate per caso al muretto. All’interno della sala, le piante bellissime e così rare - vengono dal Messico, dalla Malesia, dall’India, dalla Nuova Zelanda, dalla Nuova Caledonia, dalle Hawaii, dall’Australia - in mezzo a cartacce, rifiuti, tavolini vecchi e coperti da teli consunti. Tovaglioli di carta, cartelli rotti, vasi rotti. Muri spaccati dall’umidità. Altra serra, altro spettacolo. La vasca delle ninfee è uno stagno puzzolente. Dicono gli uomini dell’Aster che ogni anno devono cambiare le piante e mettere quelle nuove, quindi bisogna aspettare. E speriamo che sia davvero così. Ma tutt’intorno è un disastro lo stesso e non dipende certo dalla stagionalità o meno della vegetazione. Il giro prosegue all’esterno, sul fondo della fontana centrale all’incrocio dei vialetti qualcuno ha lasciato un vaso. Poco distante, alla sezione delle piante rampicanti, la vite è groviglio di rami secchi. E lo stesso aspetto ben poco florido lo hanno le palme nella loro serra. Accanto, dei vasi di camelie bloccano il funzionamento della pedana per disabili e un cumulo di tavoli, sedie mangiate dal tempo indica l’accesso ai bagni da cui è meglio stare lontani.
Le camelie, per fortuna. L’unico modo per ristorare il cuore e la mente, è lasciare l’orto botanico e fare un giro nel parco storico.

Qui, dopo aver superato il viale gotico e l’ennesimo schiaffo alla bellezza con l’antica Coffee House, dove le finestre sono tappate da pannelli di plastica e nascondono un interno affrescato, si sale nel verde fino al viale delle Camelie e si cammina su un tappeto di fiori incantevole che di per sé vale il prezzo del biglietto d’ingresso. Ma per quanto mozzafiato non basta a compensare le brutture precedenti. E la domanda è sempre la stessa: perché l’incanto deve ridursi ad un gioco al ribasso?

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