Continuo i miei ricordi di bambino a Genova da quando la mia mamma venne a trovarmi. Dopo un breve giro per i vicoli andammo in albergo. La stanza era abbastanza grande e comprendeva un letto matrimoniale, un armadio, due sedie e, accanto all'unica finestra, una «toeletta» su cui la mamma, dopo essersi profumata i polsi, pose una boccettina quasi vuota di colonia (certamente un campioncino). Presi subito la boccetta e ne annusai la fragranza. In quel profumo c'era tutta la mia infanzia.
«Ti piace?» domandò la mamma.
«Moltissimo».
«Tienila, tesoro».
Su quella boccetta che conservai per tanti anni, c'era un'etichetta dorata con inscritto in rilievo: Prestige.
Cogliendo l'occasione dell'assenza di papà che era andato alla reception per pagare la stanza, la mamma mi disse: «Scrivimi quando puoi» e segnò il suo indirizzo su di un biglietto che mi consegnò insieme a dieci lire di carta, che rapidamente nascosi in tasca.
Restammo circa un'ora in quella stanza; Nives e io affacciati alla finestra a guardare il movimento della strada e loro due a discutere sottovoce. Noi non ci voltavamo, ma sentivamo che stavano litigando; finché la mamma iniziò a piangere sommessamente. Non sapevamo cosa fare, ma non ci voltammo continuando a fissare sulla strada la commedia della vita.
Mamma e Nives rimasero in albergo. Non so se e dove cenarono, so che il mattino successivo tornarono a Milano.
Apparentemente, la vita con papà e la zia Lina aveva ripreso il corso normale, ma dentro di me qualcosa stava di nuovo cambiando. Cominciavo a rendermi conto di essere ferito. Prendevo coscienza che avevo una mia volontà, e una mia vita da vivere. Non volevo essere un cagnolino che scodinzola a tutti per farsi voler bene. Ma neanche un cane che ringhia e morde chiunque si avvicini. Non serbavo rancore né a mio padre, né a mia madre né soffrivo di gelosia verso chi stava con loro. Però volevo decidere io con chi stare.
Intanto iniziò l'anno scolastico. Mi impegnai solo per pochi giorni; poi cominciai a perdere interesse per le lezioni. Seguivo le mie fantasie, i miei desideri sentimentali e anche quelli fisici derivanti dagli istinti sessuali sollecitati dalla matura maestra che abitava con noi. Questa signora, infatti, coglieva ogni occasione, quando non vista da altri, per farmi vedere le sue ancora splendide gambe e per tentare qualche carezza intima da me rifiutata per timidezza e pudore nonostante la desiderassi.
A scuola feci amicizia con il compagno di banco, figlio di genitrice inglese e padre italiano, titolare, costui, di un negozio di drogheria in via Montevideo. Il suddetto compagno di banco, simpatico, bonaccione, flemmatico, mi seguiva in tutte quelle poche marachelle che facevo. La birbonata che ebbe le più severe conseguenze... fisiche si svolse un paio di mesi dopo l'inizio della scuola.
Per andare al Liceo Colombo dovevo prendere il tram che da Brignole portava in piazza della Annunziata in prossimità della scuola, cosicché mio padre, ogni mattina, mi dava l'esatta cifra del biglietto: quarantacinque centesimi. Io, imitato dal mio compagno, una mattina passai con indifferenza davanti al bigliettaio dicendo: «Tessera». L'espediente funzionò per qualche tempo. Con i soldi trattenuti e accumulati ci compravamo sacchetti di morbide caramelle «Perugina» (tipo mou), dolciumi, questi, che erano desiderati non solo dai ragazzi, ma anche dagli adulti perché, in fondo al sacchetto, c'era una figurina della raccolta del «Feroce Saladino». Queste figurine circolavano in tutta Italia e venivano scambiate come fossero denaro. Quella del «Feroce Saladino» era la figurina meno frequente, quindi la più ricercata tanto che, su di essa, si era consolidato un accanito mercato con quotazioni in denaro elevatissime.
Tornando al nostro reato, tutto andò bene sino a quando un bigliettaio più zelante ci disse: «Fatemi vedere la tessera».
«Oh! Scusi me la sono dimenticata a casa» rispondemmo goffamente.
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