Economia

Come gestire al meglio la liquidità

Più servizio, più trasparenza e minori costi. Dopo la grande crisi che ha cambiato regole e prospettive, l’industria dell’asset management si interroga su come diventare un interlocutore sempre più richiesto dalle aziende per la gestione della liquidità e per battere la fortissima concorrenza dei titoli di Stato e soprattutto dei conti correnti delle banche

Come gestire al meglio la liquidità

Più servizio, più trasparenza e minori costi. Dopo la grande crisi che ha cambiato regole e prospettive, l’industria dell’asset management si interroga su come diventare un interlocutore sempre più richiesto dalle aziende per la gestione della liquidità e per battere la fortissima concorrenza dei titoli di Stato e soprattutto dei conti correnti delle banche. Una liquidità di cui le aziende scarseggiano in tempo di crisi e che utilizzano più come servizio all’attività d’impresa che non come investimento di lungo termine, preferendo gli strumenti più liquidi. Per questo è aumentata la richiesta di sicurezza e di protezione del capitale e si cercano indicatori più efficaci dei rating per stabilire l’affidabilità della controparte. Sono questi alcuni dei temi affrontati nella tavola rotonda «La liquidità: una risorsa preziosa e un asset class da valorizzare» organizzata da Davide Auricchio di Strategia e finanza con la collaborazione di BancaFinanza. All’incontro hanno partecipato Marco Bigatti, direttore finanza di Luxottica group, Luca Di Palma, head of finance & treasury di Bracco Imaging, Giampaolo Giannelli, director head of professional investors di Invesco, Raimondo Marcialis, direttore generale di Mc Gestioni sgr, Paolo Proli, direttore commerciale terze parti di Amundi sgr, Cino Ricci, vicepresidente dell’Associazione europea tesorieri d’impresa, Luca Sansalone, responsabile della tesoreria di Intesa Vita, Patrizia Tammaro Silva, head of institutional sales & global liquidity di Jp Morgan Am, Angela Maria Scullica, direttore di BancaFinanza, e Achille Perego, caposervizio economia di Qn.

Domanda. Che cosa è cambiato nella gestione della liquidità dopo due anni di crisi?

Giannelli. Credo che, negli ultimi due anni, la crisi abbia riportato prepotentemente l’attenzione sul controllo del rischio associato alla gestione della liquidità. Anche quello relativo agli impieghi, dal momento che, durante le fasi più acute della crisi, molti portafogli sono rimasti illiquidi anche a causa di valorizzazioni che non ne consentivano lo smobilizzo. Ci si è trovati di fronte a un mercato che ha visto ridurre drasticamente l’«universo investibile»: per esempio il mercato delle emissioni di carta commerciale si è contratto di oltre il 30% nella fase post crisi  a fronte di una crescita esponenziale del rischio controparti. D’altro canto, la crisi ha innescato un processo di inasprimento delle politiche aziendali, imponendo più attenzione e vincoli al modo in cui la liquidità viene impiegata. La crisi inoltre ha sollevato una serie di temi e di comportamenti come il controllo del rischio e una disciplina ancora più rigorosa nei processi di investimento.  È interessante anche osservare come formule alternative di impiego della liquidità come i fondi monetari tripla A abbiano vissuto un paradosso dopo la crisi Lehman:   proprio nel momento in cui si è assistito alla bancarotta di blasonati istituti bancari, gli investitori si sono rivolti maggiormente al sistema bancario con depositi vincolati, p/t, certificati di deposito e via dicendo, piuttosto che ricorrere a strumenti alternativi per diversificare i rischi

D. Questa situazione non dovrebbe spingere il mercato verso nuovi prodotti di gestione della liquidità?

Giannelli. Ritengo che l’utilizzo di strumenti alternativi come i fondi monetari tripla A possano trovare un riscontro positivo in un mercato più attento alla diversificazione del rischio. D’altra parte, l’attuale livello dei tassi potrebbe portare a cercare fonti di extra rendimento a scapito della sicurezza e della stabilità.

Tammaro Silva. I tesorieri anglosassoni utilizzano esclusivamente fondi monetari con rating tripla A rispetto ai depositi bancari e ad altri strumenti. Confermando il loro focus sulla preservazione del capitale con un rendimento in linea con il mercato. A differenza di quanto facevano i tesorieri francesi e italiani, che cercavano prodotti più rischiosi per una prospettiva di maggiore rendimento. Con la crisi la ricerca della sicurezza è tornata prioritaria rispetto alla performance. Il mercato francese, conosciuto per la diffusa presenza di fondi monetari più aggressivi, ha impiegato più tempo per rifocalizzarsi sulla sicurezza rispetto all’Italia. Dopo aver assistito negli ultimi due anni a una crescita molto importante dei fondi monetari con rating tripla A, oggi la richiesta sembra orientata verso prodotti leggermente più aggressivi perché tassi e rendimenti sono scesi al minimo. Nella scelta di un prodotto monetario di tipo enhanced è importante rispettare l’orizzonte temporale; questi prodotti sono più adatti a investimenti con orizzonte di uno o più anni. Detto questo, non si può non evidenziare come i tesorieri, proprio in seguito alla crisi, abbiano creato e rivisto le politiche di investimento interne. Tre anni fa nessuno chiedeva dove investivamo la liquidità, che cosa avevamo nel portafoglio. Durante la crisi, invece, si voleva sapere come facevamo la ricerca dei titoli, chi erano le controparti, com’erano le esposizioni e all’interno la diversificazione sul fondo veniva anche controllata dalle case. La crisi ha fatto sì che i tesorieri siano diventati le persone più importanti della società. Tutti vogliono sapere dove investono, con chi, come.

D. Che cosa può comportare questa richiesta di prodotti un po’ più aggressivi?

Ricci. Io sono il più vecchio a questo tavolo: sono meravigliato dai discorsi sull’asset management, sulla diversificazione. Dal 1971 in poi, dalla decisione di Richard Nixon sulla convertibilità del dollaro, non è cambiato molto. La storia dovrebbe insegnare qualcosa. Aziende solvibili in Italia ce ne sono, ma forse veramente liquide solo una decina, mentre c’è una richiesta fortissima delle case di asset management nel cercare contante. A noi servono soprattutto i soldi che le banche difficilmente danno. Del resto lo dice anche Bankitalia: non c’è stata questa espansione del credito. Le aziende italiane hanno un grossissimo problema rispetto a quelle inglesi e francesi: sono piccole. E di conseguenza la liquidità è diversa. Le società anglosassoni, anche per questioni fiscali, hanno una liquidità strutturale; quelle italiane, a parte poche eccezioni, sono disperatamente alla ricerca di denaro. Il primo compito del tesoriere, storicamente, è stato quello di trovare i soldi, poi di ridurne il costo, quindi ridurre i rischi. Oggi il discorso non è cambiato, a maggior ragione di fronte alla mancanza di liquidità, anche tra le banche. E vengo all’altro argomento introdotto: investire in fondi tripla A? Per rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto capire a che cosa servono i rating. La Spagna è uno dei Pigs, secondo gli anglosassoni, eppure ha avuto la tripla A fino a poco fa. E anche gli Stati Uniti sono tripla A ma se analizziamo tutto il debito americano, non solo pubblico, vediamo che è il peggiore al mondo come volume totale e con una percentuale del 400% sul Pil. Quindi non capisco - e vorrei che qualcuno mi spiegasse - che peso hanno i rating, anche alla luce del fatto che le autorità centrali continuano a chiederlo.

Marcialis. Non ho risposte a queste domande. Posso però fare qualche considerazione con una premessa semplice. Noi siamo di fronte, oggi, a una buona notizia e a una cattiva. La cattiva notizia è che abbiamo vissuto una crisi devastante mai vista prima che ha cambiato il nostro modo di guardare a molti strumenti e alla clientela. La buona notizia è che il mercato sta reagendo. Peccato che oggi questa sia diventata una potenziale cattiva notizia, perché i prezzi stanno già scontando una visione più favorevole del mercato riducendo la spinta a una maggiore redditività. E quindi credo che ciò possa portare nel futuro qualche problema. Fatta questa premessa, il mio mestiere è un po’ particolare. Compro prodotti da molti altri gestori, compresi Invesco, Amundi e Jp Morgan qui presenti. Devo quindi stare attento a che cosa fanno e imparo molte cose. Per esempio che la stragrande maggioranza dei portafogli obbligazionari è composta da prestiti bancari. Questo significa che la grande maggioranza dei gestori drena del risparmio dal retail, prende il risparmio dai tesorieri, lo impacchetta diversificando il rischio e poi lo dà a chi ha un assoluto bisogno di denaro: le banche. Ma se i tesorieri hanno bisogno di soldi e vanno dalle banche che hanno a loro volta bisogno di soldi e di ridurre i rischi, qualche problema a livello di sistema si crea. È chiaro che l’industria dell’asset management viaggia volentieri verso l’investimento in bond bancari perché oggi il rischio di credito delle banche si è completamente annacquato e parcellizzato trasformandosi più in rischio sistematico che specifico grazie al sostegno pubblico. Così tutto il sistema dell’asset management va a nozze con questi prestiti che sono i più sicuri, perché hanno catene interne di sostegno e sostegni politici rilevanti. Ma questo non può che togliere liquidità al mercato, perché è chiaro che questa va pagata a un prezzo maggiore.

Sansalone. Anche le assicurazioni, evidentemente, non sono indifferenti agli accadimenti e ai movimenti del mercato. La nostra esperienza di tesorieri si differenzia sensibilmente rispetto a quella del mondo industriale: la nostra società, e più in generale il settore assicurativo vita, in questo momento non accusa una particolare crisi di liquidità. L’attenzione ai prodotti finanziari, dunque, non solo ci pone di fronte questioni di Alm, relative agli impieghi/impegni di medio lungo periodo, ma cerca di cogliere anche nel breve-brevissimo termine opportunità finanziarie efficaci. Negli ultimi due anni e mezzo-tre anni, si è osservato un radicale cambiamento delle politiche e delle scelte di investimento, anzitutto nel confezionamento dei prodotti che sono tornati a rivivere una stagione, per così dire, più tradizionale rispetto a quella delle unit e index linked. Ciò che non è cambiato è il quadro normativo nazionale e sovranazionale, relativamente poco attento e tardivo rispetto a una situazione economica e finanziaria complessa e senza precedenti.

D. Qual è la politica della gestione di liquidità di Luxottica?

Bigatti. Mantenere uno stock di liquidità adeguato per garantire le necessità finanziarie per gli esercizi successivi, per avere una riserva di tranquillità. Credo che questo sia un approccio consolidato nelle aziende industriali. L’altro elemento che si è enfatizzato recentemente è il rischio di controparte, qualcosa che viene valutato sempre nell’ottica della gestione dei rischi. La difficoltà, in questo caso, è individuare un criterio oggettivo per valutare la controparte al di là della semplice ripartizione del rischio non investendo tutto con una sola controparte o in un unico portafoglio. Se è più facile diversificare con criteri equilibrati, difficile è invece individuare il criterio oggettivo della valutazione della controparte. Di chi cosa ci si deve fidare? Del rating, dei Cds, di altri strumenti? Aiutatemi voi a rispondere. Quello che a mio parere aiuterebbe però, e sta mancando in questa fase post crisi, è la ricerca di una maggiore trasparenza, semplicità e chiarezza.

D. Insomma, il rating è sul banco degli imputati...

Tammaro Silva. Vorrei sottolineare che il rating tripla A dei fondi monetari  è fondamentalmente per riconoscere la loro capacità di preservare il capitale e si basa su caratteristiche come una duration molto bassa, l’alta qualità dei titoli sottostanti, il modo in cui viene fatto il mark to market, cioè tutta una parte di gestione del portafoglio che va al di là della semplice selezione di titoli con il rating tripla A. Dopo Lehman, le agenzie di rating hanno chiesto a gestori di fondi AAA di acquisire sistema di rating interno. Quindi, un team di analisti che danno voti ai titoli sottostanti, voti che poi paragoniamo con quelli delle agenzie. E se sono gli stessi e riteniamo quel titolo valido per il portafoglio, lo prendiamo. È vero che oggi i rating delle agenzie non sono ottimali o una garanzia ma restano lo strumento migliore che abbiamo come punto di riferimento.

Sansalone. Attenzione, però: non riteniamo il rating l’unico indicatore o benchmark di riferimento. Purtroppo, anche in questo caso la vicenda Lehman è esemplare; nella gestione a brevissimo termine, tipica delle tesorerie assicurative, ne va riconosciuta una certa bontà. Nelle nostre scelte, non ultima per esempio quella della selezione di cash funds, una costante è l’osservazione del mercato. Il nostro è un business assicurativo e l’impegno e la responsabilità verso la nostra clientela è, e deve rimanere, centrale in ogni decisione. Con i cash fund possiamo affermare di aver trovato una valida soluzione per assecondare e garantire la copertura ai riscatti immediati di polizza. Così facendo la gestione degli asset in ottica più di Alm, può essere seguita con una view di più ampio respiro. Ciò non ci sottrae da un costante monitoraggio dei fondi utilizzati attraverso anche periodici incontri con le controparti, dove trasparenza e informazione non possono e non devono mancare. Tornando invece al discorso accennato prima, in termini di maturity, 30-40 giorni, mi sento di poter sostenere il valore del rating. Nel medio e lungo termine nutro personalmente qualche perplessità sulla esclusiva bontà, valutata e ritenuta determinante da alcuni investitori. Ma questo è un tema complesso che meriterebbe altri approfondimenti.   

Marcialis. La trasparenza è un costo. Persino la diversificazione è un costo. In realtà mancano i soldi e quelli che ci sono non riescono a essere canalizzati verso investimenti produttivi. Abbiamo poi anche un altro problema, dato dal fatto che noi asset manager guadagniamo dai rendimenti offerti dal mercato, e se i tassi sono bassi anche i rendimenti espressi saranno bassi e quindi anche i nostri margini diminuiscono. Se in questo sistema metto anche il costo della trasparenza e dell’asset liability management, per avere meno rischi non potrò che diminuire ancora il rendimento atteso dal mercato. Diverso è invece il discorso importantissimo che faceva Ricci. Chi ha parecchia liquidità da investire (beato lui!) è vincente sul mercato. Per chi invece vuole una migliore canalizzazione dal mercato del risparmio gestito o cambia la normativa e questa porta chiari benefici fiscali a chi investe in modo stabile nel mercato reale, quello delle aziende, oppure credo che ci sia poco da fare.

Ricci. Non vorrei che Marcialis fosse contro la trasparenza perché costa...

Marcialis. No assolutamente, non volevo dire questo. Intendo dire che la trasparenza aumenta la sicurezza ma aumenta anche i costi espliciti, la scarsa trasparenza invece riduce i costi espliciti ma rappresenta un costo implicito, come ci insegnano l’ingegneria finanziaria e i vari scandali sui derivati.

Ricci. Bene. Ma se i tassi sono bassi che cosa possiamo fare? È il mercato, signori. Noto che a questo tavolo siamo in otto: cinque asset manager e tre tesorieri. Qualcosa che non funziona c’è e forse c’è spazio per meno asset manager.

Proli. Quella di Ricci è una provocazione che accetto di buon grado. Le specifiche esigenze delle aziende sono spesso sottovalutate dal sistema dell’asset management in generale, e ancora di più in Italia. Per questo noi asset manager dobbiamo evolvere, migliorare la qualità dei servizi, che a oggi risultano ancora limitati, dedicati a questo specifico segmento di clientela, potenziando anche il supporto fornito al tradizionale «sistema di distribuzione» dei servizi al segmento corporate, cioè la banca. Come fabbriche prodotto, invece, siamo già molto avanti perché siamo attenti alle dinamiche di rischio-rendimento, al fine di ottenere performance in linea con le aspettative del cliente. Si pensi che se l’ultima emissione a tre anni di Crédit Agricole è stata fatta a tasso Libor più 0,35%; il tesoriere dell’Agricole ha questo come tasso di finanziamento: di conseguenza noi come fabbrica prodotto dobbiamo studiare una valida alternativa attraverso soluzioni di gestione compatibili con il profilo di rischio e la durata dell’investimento richiesta. Oggi l’asset management non si è concentrato sufficientemente sulla parte di servizio dedicato alle aziende e sicuramente può migliorare nelle soluzioni di gestione della liability, anche con prodotti di investimento specifici a valuta T con zero. Si tratta di fondi di investimento della liquidità, che consentono un’operatività in giornata, già molto diffusi all’estero, ma che in Italia non hanno avuto ancora lo stesso successo. È difficile fare diversificazione di portafoglio, ma se si riesce a essere più trasparenti e diretti con il cliente è possibile inserire all’interno dei portafogli anche strumenti di investimento decorrelati, realizzando obiettivi di rendimento più alti rispetto al tasso ufficiale. Partendo dal prodotto più semplice si può, per esempio, sfruttare in modo opportunistico i 60/70 centesimi di differenziale rispetto ai titoli governativi, disponibili sulla curva del credito a uno/tre anni, più che sufficienti per alzare il rendimento di breve all’interno di un portafoglio diversificato con limiti più stringenti rispetto al passato. Passando alle aziende, sono loro stesse che non investono la liquidità a loro disposizione: sono ancora in una posizione difensiva, ma nei prossimi mesi cominceranno, probabilmente, a interessarsi per tornare sul mercato, non attraverso gli strumenti del passato, ma alla ricerca di prodotti più innovativi. Ovviamente è utopistico pensare che tutta l’industria si adegui in pochi mesi a queste nuove richieste.

Di Palma.  Sono arrivato in questa azienda circa tre anni fa, poco prima che scoppiasse la crisi. Una delle mie prime iniziative fu quella di formalizzare una policy di rischi finanziari, successivamente approvata dal consiglio di amministrazione. Si tratta di una policy molto conservativa, che in tema di gestione della liquidità è maggiormente tesa alla conservazione del capitale al servizio delle esigenze del business piuttosto che alla massimizzazione del rendimento degli investimenti. Questo atteggiamento ha permesso al gruppo di attraversare la crisi finanziaria modificando gli atteggiamenti di vigilanza, ma senza intervenire sulla policy. I capisaldi di questa politica sono semplici: più della metà della liquidità deve essere tenuta sotto forma di cash o strumenti equivalenti, una buon parte può, ma non deve, essere investita in strumenti di mercato monetario e la quota restante, se opportuno, indirizzata al mercato obbligazionario. Infine, non è possibile investire in azioni senza l’approvazione specifica del consiglio di amministrazione. All’interno di ciascuna asset class esistono poi vincoli per controparte. Il tema della diversificazione è diventato più importante dall’agosto 2007 in poi. Come diceva Ricci, abbiamo cominciato a misurare più attentamente il rischio delle nostre controparti bancarie per verificare se hanno le caratteristiche idonee per investimenti di liquidità. Ben presto abbiamo realizzato che il rating non è di per sé sufficiente ai nostri scopi e abbiamo provato a mettere insieme strumenti che ci trasmettessero un segnale più veloce per smobilizzare la liquidità in caso di possibile rischio di default, considerando anche i Cds, l’andamento azionario e il core tier 1. All’interno dei vincoli dettati dalla policy, durante la fase più acuta della crisi, abbiamo preferito porre maggiore enfasi sulla parte liquida e di breve termine degli investimenti e ridotto temporaneamente la parte con caratteristiche di più lungo termine. È vero, tuttavia, che ultimamente c’è una maggiore attenzione alla ricerca del rendimento, ma con estrema cautela. Stiamo valutando la possibilità di investire in strumenti differenti che possano produrre un rendimento migliore. Ma qui nasce una piccola contraddizione. Alcuni di questi strumenti, certamente sofisticati e gestiti in maniera professionale, hanno rendimenti benchmarcati all’Euribor a un mese. Esistono però controparti bancarie, con le quali abbiamo rapporti consolidati nel tempo, che offrono conti correnti di gestione della liquidità con rendimenti pari o superiori. L’esigenza di diversificazione si scontra quindi col maggiore rendimento offerto tramite strumenti semplici e facilmente liquidabili.

D. Quanto è forte la concorrenza del conto corrente?

Giannelli. Mi domando come sia possibile che, nonostante la crisi, gli impieghi della liquidità si concentrino ancora quasi esclusivamente su strumenti tradizionali come depositi bancari o P/t, rincorrendo spesso  un extra rendimento a scapito di un rischio associato anche evidente. Nessuno di noi pensa che una banca media, piccola o grande italiana possa fallire, ma il rischio c’è. Per questo esiste l’esigenza di diversificare con strumenti molto semplici ma molto diversificati.

Proli. Nell’indicare la percentuale di quanta liquidità in un’azienda venga utilizzata per la parte di servizio e quanta per la parte di profitto, non ho mai sentito rispondere rispettivamente più dell’80% e del 20%. Dobbiamo quindi essere coscienti anche noi che il nostro mercato non è superiore al 20% delle disponibilità dei corporate che potrebbero essere investiti con un certo livello di rischio e avere un ritorno atteso più interessante del semplice tasso di riferimento a breve termine. Sorprende ancora che un conto corrente non venga classificato «a rischio», in quanto non consente la separatezza patrimoniale, tipica di un fondo comune, ed è garantito dal fondo interbancario solo fino a 125 mila euro. Pertanto, se si deve investire 1 milione di euro meglio farlo su un fondo comune a gestione separata gestito da un bravo asset manager per avere una diversificazione del portafoglio.

Bigatti. Per un’azienda esiste già il rischio nell’attività propria d’impresa. Investire in equity non avrebbe senso se non come investimento strategico. Per questo la  maggioranza delle aziende non investe la liquidità in equity. Se penso all’extra rendimento, quale remunerazione del conto corrente, offerto da alcune controparti del sistema bancario, mi vengono una serie di dubbi. Mi dà l’idea di qualcosa che non funziona.

Ricci. Il conto corrente? Analizzo e se rende di più mi va bene. Del resto, mi chiedo, perché dare soldi agli esperti per avere un rendimento inferiore a quello di un titolo di Stato? Se la mia controparte banca mi dà sul conto l’1% perché devo dare la liquidità a un asset manager, bravissimo, alto e biondo ma che mi offre lo 0,1%. Così non funziona e poi ci sono società di asset manager che sono di proprietà delle banche: allora vado direttamente dalla banca.

Di Palma. La misurazione del rischio controparte oggi non è semplice, anche perché elementi quantitativi e oggettivi nella maggior parte dei casi sono datati e non permettono di cogliere in tempo un segnale di pericolo per la liquidità investita. Dobbiamo considerare elementi con caratteristiche di soggettività, che hanno a che fare con la percezione del mercato e la nostra relazione con la controparte. Da una parte, quindi, dobbiamo valutare se un conto corrente con alto rendimento offerto da un istituto bancario non sia, di per sé, un segnale di allarme rispetto alla solidità finanziaria dell’offerente e alla sua capacità di fare provvista. Dall’altra parte, dobbiamo cercare di approfondire la conoscenza di asset manager che spesso propongono prodotti la cui trasparenza non è sempre massima. E quindi questo scambio del certo per l’incerto non sempre è percorribile in una realtà dove l’approccio conservativo fa premio, visto che, in una logica imprenditoriale, l’assunzione di rischio riguarda il business piuttosto che la gestione finanziaria.

Marcialis. Se uno strumento monetario mi dà un rendimento inferiore a quello del conto corrente, scelgo quest’ultimo strumento, anche perché ormai il rischio bancario è livellato. Se l’asset manager offre qualcosa di standardizzato, e cioè un fondo comune come tanti altri che per una questione di costi non può battere quel rendimento, non vedo perché il tesoriere debba investirci. L’elemento che fa la differenza è se io offro un servizio o un fondo che offre un maggior valore aggiunto, che rientra nella policy aziendale. Detto questo, concedetemi una piccola provocazione: perché le aziende non investono sull’equity in fondi short per coprirsi dai rischi di recessione?

Tammaro Silva. La tesoreria non ha l’obiettivo dei rendimenti perché i rischi delle aziende vengono presi sul business, sul rischio imprenditoriale. Fino a luglio 2007 i tesorieri preferivano i fondi monetari leggermente più aggressivi poi, con lo scoppio della crisi, c’è stata la corsa ai fondi T+0, monetari con il rating tripla A, anche puramente governativo con l’obiettivo di preservare il capitale. Come tutti i gestori, avevamo anche noi fondi monetari dinamici per aumentare la redditività. Ma per un tesoriere, i fondi conservativi come quelli AAA rimangono probabilmente i prodotti più adatti. Che con una prospettiva di quattro-sei mesi si scelgano strumenti monetari o anche il conto corrente all’1% ci sta; diverso invece è il discorso per le scadenze brevissime, per i due-tre giorni, per cui credo che il servizio fornito da un asset manager abbia un valore aggiunto in più.

Proli. Concordo sul ruolo importante dell’industria dell’asset management nel creare servizi per la gestione pura della liquidità, il cosiddetto cash is cash, dove non si devono far correre rischi inconsapevoli al cliente. L’importante è far conoscere bene il prodotto e renderlo operativamente sempre più semplice. Di conseguenza, per noi la risposta vincente dell’asset management è costare poco e creare prodotti adatti all’esigenza di ottimizzazione dell’investimento della liquidità. In un secondo momento si potrà pensare anche alla costruzione di portafogli più rischiosi, per l’investimento della componente più strutturale della liquidità dell’impresa, capaci di rendere almeno 50-60 basis point sopra i tassi di mercato e, perché no, investendo anche nell’equity, con quote prudenziali intorno a un 5%: il fine è di migliorare ulteriormente il rendimento in modo il più possibile decorrelato, selezionando settori alternativi al core business dell’azienda all’interno di un portafoglio bilanciato e diversificato, non tramite l’investimento in singoli titoli. In tal senso, dovrebbe essere promossa la cultura finanziaria nelle aziende per quanto riguarda la conoscenza dei prodotti di investimento della liquidità al fine di identificare quelle che rispondono al meglio alle esigenze proprie dell’azienda. Inoltre, questo permetterebbe all’azienda di mettere in competizione «prodotti e gestori» e trovare le migliori soluzioni di investimento che rispecchino le differenti esigenze e orizzonti temporali.

Ricci. Già adesso, sistematicamente, le aziende mettono in competizione asset manager e gestori. È normale che sia così. Quello che invece non viene fatto è di consultarsi prima che un asset manager venda i prodotti comprati dalle solite cinque case. Ripeto: parliamoci prima per sapere che cosa serve davvero alle aziende, che chiedono soprattutto prodotti semplici. Lo diciamo da 30 anni anche alle banche. E qualcuna, finalmente, ha cominciato ad ascoltarci.

Marcialis. Per rispondere alle critiche devo dire che gli asset manager si sono distinti in modo enorme dalle banche: non hanno venduto strutturati del piffero. Certo, qualche errore l’hanno fatto, ma se voglio investire seriamente non vado da chi (le banche) vende prodotti da bancone, ma dalle società di gestione ottenendo prezzi più competitivi e servizi migliori. Quanto alla richiesta di semplicità, bisogna dire che a volte strumenti che paiono semplici sono più complessi di quanto non si creda. Come i Cct, che non sono legati ai tassi, ma a un altro strumento finanziario, i Bot. I prodotti semplici vengono sempre richiesti dopo le crisi e mai prima; quando le cose vanno bene gli operatori amano investire proprio in strumenti complessi e speculativi. La realtà è che oggi ci sono risorse straordinarie sui mercati come la possibilità di cambiare istantaneamente gli investimenti o di vedere in tempo reale i portafogli piuttosto che nuove interessantissime tecniche di gestione. Il vero problema è che tornare al semplice non significa mettere la testa sotto la sabbia ma dividere in modo secco ciò che non è rischioso da ciò che lo è, evitando i polpettoni che mescolano il tutto. Sapendo, inoltre, che quando si mescolano troppo le carte con prodotti inutilmente complessi forse cercano di «imbrogliarti».

Di Palma. Il valore e la professionalità degli asset manager è a noi noto. La logica della diversificazione ci ha portati a considerare di avere esposizioni anche verso alcuni di questi soggetti. Oggi ci sono aziende, tipicamente le large corporate, che hanno personale molto qualificato per la valutazione dei rischi finanziari. Noi ci basiamo sul principio molto semplice: investiamo solo in strumenti che comprendiamo interamente e la cui performance può essere da noi misurata in autonomia. E non è sempre facile ottenere tutte le informazioni necessarie per poter misurare tutti i prodotti offerti. Riconosco però una tendenza relativamente recente di banche e asset manager ad ascoltare di più le esigenze delle imprese.

Sotto questo specifico aspetto, la crisi ha avuto per le imprese un effetto positivo.   

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