TripoliUn fumo grigiastro, che ti azzanna la gola, si alza ancora dai uno dei due capannoni della marina libica fatti a pezzi dagli attacchi alleati di lunedì notte. All'interno i possenti camion, con le rampe che lanciano i missili terra terra di Gheddafi, sono ridotti ad un groviglio di lamiere semi carbonizzate. L'obiettivo è stato centrato in pieno nel porto di Tripoli, poco distante dall'ambasciata italiana evacuata prima dell'inizio dei bombardamenti. Per la prima volta le guide del regime ci portano a vedere un obiettivo colpito dall'offensiva aerea alleata. La banchina di Al Buseta è una specie di piccola base navale. Al molo sono ormeggiate alcune navi da guerra rimaste intatte, ma l'obiettivo vero erano dei capannoni dove i libici avevano occultato tre grandi camion con i lanciatori di missili terra-terra russi. Lo spiega senza tanti peli sulla lingua, il comandante della base, Pathy Rabta. Il berretto a visiera ricorda quello dei comandanti delle navi da guerra americani. Maglione blu di marina con i gradi sulle spalline e baffi ben curati cerca di assicurare «che questi erano hangar per le riparazioni». I lanciatori sono inutilizzabili, ma l'impressione è che i missili terra terra siano stati portati via per tempo.
All'esterno un lanciarazzi multiplo, conosciuto fin dalla seconda guerra mondiale come «l'organo di Stalin» è accartocciato: «Il nemico ha lanciato sei missili Tomahawk e due bombe d'aereo distruggendo tutto. Sapevamo che poteva essere un obiettivo prioritario e abbiamo evacuato il personale di guardia. Per questo motivo non ci sono vittime o feriti» spiega l'ufficiale di Gheddafi. I crateri lasciati dagli ordini alleati sono larghi una decina di metri e profondi meno della metà. Bidoni anneriti, probabilmente di olio o carburante, formano una collinetta. Dai tetti degli hangar, che non esistono più, penzolano lamiere contorte.
Nonostante i colpi di maglio dal cielo il regime di Gheddafi sembra in sella, almeno nella capitale. Le sue truppe sferrano ancora attacchi alle enclave ribelli nella Libia occidentale. Per il quinto giorno consecutivo si combatte a Misurata, 180 chilometri ad Est di Tripoli. I governativi avevano annunciato di aver riconquistato la terza città del paese, ma ieri la battaglia continuava con 120 feriti e una quarantina di morti, compresi 4 bambini.
Pure Ziltan, una delle prime città insorte contro il colonnello, sarebbe teatro di duri scontri con 40 carri armati di Gheddafi pronti a sfondare. Il sospetto è che le truppe corazzate puntino ad infiltrarsi nelle città in mano ai ribelli per evitare i raid alleati. Oppure attirarli provocando inevitabili distruzioni e morti fra i civili.
Nel caos della guerra in Libia la capitale vive una doppia dimensione. Di notte tutti si aspettano le bombe e di giorno la vita riprende con un clima di apparente normalità. I bar sono aperti ed i tavolini all'esterno, a due passi dal lungomare, sempre affollati. I giovani fumano il narghilè e sorseggiano il caffè alla turca. In questo ambiente surreale per una capitale in guerra, Renata Eisel legge tranquillamente la biografia in tedesco di Giangiacomo Feltrinelli. «La prima notte tremavo di paura quando hanno cominciato a sparare con la contraerea. Poi ho cominciato ad abituarmi ai rumori dei bombardamenti. Di giorno sembra tornare tutto normale e vengo al caffè a rilassarmi» spiega l'ultima tedesca rimasta a Tripoli. Una specie di marziana con i capelli biondi corti e gli occhi azzurri, che dirige l'istituto culturale germanico nella capitale. Sotto l'apparente normalità si nota che gran parte dei negozi sono ancora chiusi. Davanti ai forni del pane si formano lunghe file, i prezzi sono esplosi e cominciano a scarseggiare alcuni generi di prima necessità.
Un giovane senza lavoro, che passa il tempo con gli amici al caffè, dice con ironia: «Bombe? Di notte ci sono i fuochi d'artificio. Restiamo tappati in casa e aspettiamo di vedere come va a finire».
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