Politica

Gianfranco sacrifica il suo uomo per non andare alla conta

RomaBeep beep. «Assemblea gruppo Pdl annullata per dimissioni definitive vicepresidente vicario Bocchino. Seguiranno comunicazioni. F. Cicchitto». L’onorevole sms coglie i più di sorpresa. E non solo perché arriva alle dieci e venti del mattino, quando i deputati pidiellini, seppure in Aula, sono già mentalmente pronti alla battaglia delle 11, convocata in Sala della Regina. «Non ci credo». «Sì, è tutto vero». Già, stavolta è nero su bianco indelebile, nella terza lettera inviata dal finiano al capogruppo. E tra i banchi del centrodestra non si parla d’altro.
D’altronde, al di là delle dichiarazioni a caldo rilasciate dal diretto interessato, è evidente che la decisione sia frutto di un lungo lavorio, tutto interno alla minoranza del partito. Dove sono lesti a spiegare le ragioni politiche alla base del via libera all’ultimo ripensamento (prima dimissioni, poi niente, infine sì e irremovibili), concordato mercoledì sera, dopo un lungo confronto con Gianfranco Fini. Quindi, «così abbiamo dimostrato di aver detto la verità». Cioè? «A noi non interessa accaparrarci le poltrone, ma portare avanti la nostra linea politica, mantenendo alta la dignità politica di chi vuole dire la sua senza passare per disfattista». «Come spiegato a chiare lettere da Fini a Porta a porta», ripetono in coro i fedelissimi del presidente della Camera. Che al rientro da Bari - dove ha preso parte all’ottava riunione dei presidenti dei Parlamenti dei Paesi aderenti alla iniziativa Adriatico-Ionica - chiama a sé subito Bocchino. Reduce da un’intervista corale (e di fuoco) in Transatlantico, andando pare al di là di quelle che erano le direttive serali impartite da Fini nel mini-vertice. Ovvero, non prestare il fianco alle provocazioni, mantenendo però il punto sulle questioni politiche. E chiudere la partita dimissioni per evitare uno scontro infuocato, già annunciato in sede di assemblea pidiellina, che in ogni caso avrebbe portato a un esito scontato della conta. Anche perché, numeri alla mano, con la scarsa simpatia - diciamo così - che raccoglie Bocchino anche tra i suoi, sarebbe finita con una seconda sberla, dopo quanto avvenuto in direzione nazionale con il documento finale, che avrebbe colpito in pieno volto pure Fini.
Per capirci, il destino di Bocchino, ieri, era segnato. Semmai, il parlamentare campano ha limitato paradossalmente le perdite, visto che era già allo studio l’arma estrema: la mozione di sfiducia. Pur non essendo pronto un testo completo, l’ala più oltranzista del partito si era infatti mossa in quella direzione, con una riservata raccolta di firme da presentare se necessario. Circa quaranta gli autografi in calce alla pre-adesione, posti da ex azzurri ma pure da una quindicina di ex An. Tutto ciò, nonostante la terza carica dello Stato abbia ripetuto ai suoi di «non capire cosa venga imputato davvero ad Italo, nell’espletamento della sua funzione». Denuncia quindi l’epurazione Carmelo Briguglio, per cui «c’è stato un grave errore di valutazione oltre che un atto antidemocratico e politicamente abietto», che «comporterà un costo politico notevole per chi l’ha commesso, soprattutto in termini di perdita di consenso». Lamenta la «caccia alle streghe» Enzo Raisi: «Essendo uno di quei tre che è stato indicato nella lista di proscrizione, come la definisco, posso solo dire che il primo è caduto, vediamo gli altri due quanto resistono...».
Insomma, la strategia impostata, poi in parte saltata per i toni ancora una volta sopra le righe di Bocchino, sembrava chiara: sacrificare Italo, ma farlo apparire come una vittima, immolatosi all’altare della democrazia, del confronto dialettico e via dicendo. Ma è davvero tutto qui? No, perché scongiurando la messa ai voti, si è evitato di quantificare la minoranza nella minoranza. Dieci, undici, dodici a favore di Bocchino? Ormai poco importa, è game over. In attesa che qualcuno apra ufficialmente la corsa alla sua successione.

Per ora, ci sono solo autocandidature.

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