Gianni Morandi Il funambolo che non ti aspetti

Nel 1962, agli esordi, andava a cento all’ora per cantare serenate. Oggi, con 417 brani all’attivo e 46 anni di successi sulle spalle, Gianni Morandi si sente ancora più leggero di prima. E si permette il lusso di entrare in scena dal cielo, appeso a un cavo, mentre intona Volare di Domenico Modugno. Con questo colpo a sorpresa si apre il suo ultimo live antologico, «Grazie a tutti», che debutta oggi nella capitale.
A Roma le serate sono in totale sei (fino a sabato prossimo), ospitate da un’enorme struttura viaggiante da 3mila posti, il Teatro Tenda Lotto allestito a piazzale Clodio. «Sul palco arrivo camuffato da operaio, con un casco di plastica arancione in testa - racconta Morandi parecchio divertito - ma ogni volta la cosa più bella è vedere la faccia sbigottita della gente, che non si aspetta un ingresso del genere».
Non si sente un po’ a disagio?
«Di certo non sono un trapezista, ma alla fine è più facile di quanto si possa immaginare. L’idea è venuta in mente al regista, l’abbiamo provata e devo dire che rende bene. Volevo aprire con un classico, mi ricorda quando da bambino andavo al bar del mio paese, Monghidoro, per vedere Sanremo».
Se escludiamo il volo, il suo è uno spettacolo essenziale, del tutto privo di effetti speciali.
«Esatto, è piuttosto un momento di bilancio. Sono da solo con la chitarra per oltre due ore e mezza e senza nessuna luce o scenografia particolare. Il vero punto di forza è il rapporto che si crea con chi mi viene a vedere, che mi circonda a 360 gradi».
I brani in scaletta sono circa quaranta, è una specie di maratona.
«Sì, l’impegno è forte, mi stanco parecchio ma lo faccio volentieri, ne vale la pena. Ho suonato ovunque: in stadi, palasport, balere, teatri, e devo dire che sotto quella tenda si crea un feeling diverso, molto sincero e personale».
Ospiti illustri in programma?
«Non esiste un canovaccio preciso, anzi può succedere di tutto. Chi siede in platea conta come gli altri: a Perugia, per esempio, ho fatto salire a cantare con me una ragazza del pubblico».
Oltre alla musica dà ampio spazio alle parole.
«Racconto con ironia diversi aneddoti del mio passato, come quella volta che con Eros Ramazzotti andai a incontrare Michael Jackson. Mi pare che la gente si diverta molto».
È vero che da 50 anni tiene un diario dove annota quello che le succede?
«Sì, raccolgo gli episodi più significativi, le persone che incontro, le città che visito, date e compleanni. Ci sono molti numeri, in questo sono un po’ fissato».
Cosa scriverà del suo ritorno a Roma?
«Che è una città incredibile, meravigliosa. Ci ho vissuto per trent’anni prima di tornare a Bologna, una realtà più a misura d’uomo. Ma mio figlio Marco abita ancora nella casa che ho comprato sulla Nomentana».
Nostalgia della tv?
«Sono nato con il piccolo schermo e l’ho frequentato a lungo, ma questo è un momento particolare, ci vuole una bella idea. Ognuno, oramai, può costruirsi da solo il suo palinsesto: la televisione generalista ha bisogno di trovare una connotazione precisa».
Torniamo a «Grazie a tutti». Il tour sta andato benissimo.
«Sono contento, vedo che il pubblico per un po’ riesce a lasciare la malinconia fuori dalla porta.

Me ne accorgo alla fine, quando vengono in massa a stringermi la mano: lo spettacolo finisce in mezzo a loro, non c'è un sipario».
Potrebbe pensare a un colpo a effetto pure per l’uscita.
«Intanto mi devo far venire in mente qualcosa per l’entrata dopo l’intervallo. Che ne so, magari potrei sbucare da un tunnel scavato sotto il palco».

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