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Giappone, in gioco non c’è la Posta

La vera partita non riguarda la riforma dell’ente ma è interna ai liberaldemocratici

Livio Caputo

da Tokyo

Kaikaku, riforme, è la parola d'ordine della campagna che culminerà domenica nelle elezioni per il nuovo Parlamento giapponese. Per il primo ministro Koizumi, che le ha indette a sorpresa dopo che un gruppo di ribelli del suo Partito liberaldemocratico (Pld) avevano affondato la sua proposta di privatizzazione del servizio postale, kaikaku significa soprattutto il rilancio di questo progetto che considera vitale per la modernizzazione del Paese. Per il Minshuto, il principale partito di opposizione, significa piuttosto una revisione del sistema pensionistico e sanitario e drastici tagli alla spesa per il pubblico impiego. Perfino i piccoli partiti socialista e comunista si riempiono la bocca della parola magica. Per non spaventare le varie categorie di elettori, tradizionalmente diffidenti delle novità, tutti restano peraltro abbastanza nel vago sul contenuto delle loro proposte, tanto che è difficile capire fin dove in realtà intendano spingersi nell'opera di svecchiamento delle istituzioni di cui il Paese ha bisogno per uscire definitivamente dalla crisi economica che, con qualche breve momento di respiro, la attanaglia da quindici anni, cioè dallo scoppio della famosa bolla speculativa che aveva portato l'indice Nikkei della Borsa al triplo dei livelli attuali.
Nei suoi quasi cinque anni di governo, Koizumi ha provato a cambiare le cose, ma con alterne fortune: molto spesso è stato bloccato dal suo stesso partito che, a dispetto del nome, non è né molto liberale, né molto democratico, ma profondamente conservatore nel senso peggiore della parola. Molti osservatori sono infatti convinti che il vero obbiettivo di questa elezione-lampo (abbastanza paradossale, dato che il disegno di legge sulla privatizzazione delle Poste è stato bocciato dalla Camera alta, che per legge non può essere sciolta prima della scadenza) sia di purgare il Pdl degli ultimi esponenti della cosiddetta frazione Tanaka, cioè degli epigoni del più potente primo ministro giapponese del dopoguerra, che sono anche i più accaniti fautori dell'immobilismo.
Per sbarazzarsi dei 37 deputati che gli hanno votato contro, Koizumi li ha espulsi dal partito e, per evitare che riconquistassero i rispettivi seggi come candidati indipendenti, ha fatto scendere in campo contro di loro altrettanti fedelissimi tratti dalla società civile, che la stampa ha prontamente battezzato «gli assassini». Lo scontro tra i campioni della vecchia guardia e questi giovani leoni sarà decisivo per l'esito delle elezioni: se gli uomini del premier dovessero spuntarla, come indicano i sondaggi, e un Pld così rinnovato riuscisse a riconquistare quella maggioranza assoluta di cui non dispone più dal 1990, Koizumi potrebbe aspirare a restare alla guida del Paese anche oltre il termine concordato del settembre 2006.
Una campagna elettorale centrata sulla privatizzazione delle Poste può sembrare strana, specie tenendo conto che essa dovrebbe essere «spalmata» su dodici anni e comincerebbe a incidere veramente solo verso la fine del decennio. Il fatto è che in Giappone le Poste hanno dimensioni e compiti molto più vasti che in Occidente e sono parte importante del tessuto sociale: hanno uffici anche nei villaggi più sperduti e oltre a raccogliere i risparmi e le assicurazioni sulla vita di decine di milioni di persone - un incredibile tesoro di 2.500 miliardi di euro - svolgono anche compiti collaterali che vanno dal sostegno agli invalidi a un forma di sorveglianza del territorio. Nel Giappone rurale il «maestro postino» è una istituzione di cui molti cittadini - soprattutto anziani - non potrebbero fare a meno. Purtroppo, con il tempo, Japan Post è diventato anche uno strumento di potere per i politici, che la usavano (e usano tuttora) per finanziare lavori pubblici inutili, concedere prestiti ai loro sostenitori e costruirsi quella rete di clientele in grado di garantire la loro rielezione.
Perché Koizumi, che dopotutto del Pld è il leader di turno, ha deciso di attaccare questo mostro sacro? «Per due ragioni - ci spiega Ito Yoshaiki, direttore del Mainichi Shimbun -. Primo, perché ha capito che se il Giappone vuole tornare all'avanguardia delle potenze industriali deve utilizzare al meglio l'enorme risparmio privato oggi spesso congelato in investimenti infruttiferi; secondo, perché ha fatto di questa privatizzazione una specie di simbolo del rinnovamento e lo strumento per liberarsi dei vecchi dinosauri».
Kaikaku, kaikaku e nient'altro che kaikaku. La solita rumorosa campagna elettorale giapponese, in cui i candidati e i loro collaboratori girano incessantemente per i collegi su appositi camioncini muniti di altoparlanti ruota intorno a quest'unico tema. In un certo senso, è un segno che il Paese si è svegliato e che le nuove generazioni stanno prendendo coscienza che il modello economico protagonista dei trionfi degli anni Settanta e Ottanta fatica a reggere l'impatto della globalizzazione. Perfino l'uomo della strada comincia a rendersi conto che la seconda potenza industriale del mondo non può permettersi un debito pubblico di oltre il 150% del Pil e tuttora in crescita senza perdere la sua credibilità finanziaria. Perfino chi ha tratto più vantaggio tra quello strano incrocio di economia di comando e capitalismo dal volto umano che è stato finora il Giappone si rende conto che è venuto il momento di ridurre il ruolo dello Stato e di adottare finalmente relazioni industriali più moderne.
Gli istituti demoscopici prevedono una partecipazione al voto superiore di 10-15 punti alla volta scorsa.

Se la voglia di kaikaku porterà davvero a un rinnovamento della classe politica, questo 11 settembre giapponese potrebbe diventare davvero un momento di svolta nella storia del Paese.
(1 - Continua)

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