Il gigante italiano che trasformò la boxe in una bella favola

Il 25 ottobre 1906 nasceva a Sequals, in Friuli, un bimbo di sette chili che sarebbe diventato campione del mondo dei pesi massimi e che incarna tuttora il mito del colosso buono e gentile

Riccardo Signori

Era già una montagna quando è nato il 25 ottobre 1906, non ha smesso di esserlo mai. Nemmeno di questi tempi, che sono passati cent’anni dalla nascita. Primo Carnera sono nome e cognome che racchiudono un’identità, un groviglio di storie e leggende, l’essere tutto e nessuno. Carnera è un cognome, un sostantivo, un aggettivo, una raffigurazione impropria, un simbolo, l’idea di un mito tra patacca e rarità. Nacque a Sequals che pesava sette chili, ma a tre anni i chili erano divenuti trenta. Morì a Sequals che aveva 61 anni, resisteva solo quel fisico d’armadio sfregiato dalla voracità di una malattia. Sequals e Carnera sono due puntini nella geografia e nella storia del mondo. Ma insieme valgono un mito. Carnera fu il gigante di un’epoca, ma poi è rimasto nei libri della boxe, nel ricordo del costume, da falegname a re dei pesi massimi, da gigante per caso a icona di una immagine. Scrissero sul settimanale La fiera letteraria: «Se pensiamo agli anni in cui Carnera combattè, pochi altri gli stanno al pari nel rappresentare l’Italia. E pochi altri, forse solo Beniamino Gigli, ebbero all’estero la sua notorietà. Uno solo lo superò: Mussolini». Diversi nella ribalta. «Ma attori entrambi e ciascuno aveva uno speciale palcoscenico per rivolgersi al pubblico e conquistarlo: il balcone di un antico palazzo romano per il Duce, un quadrato di tavole fra le corde per Primo».
La storia di Carnera è tutt’altro che storia di pugni, di match veri e fasulli, di campioni atterrati e di dolorose cadute. Non esiste solo la dolcezza di un mito e la favola del gigante buono, l’eterno racconto dell’italiano emigrante spolpato dai managers e il lieto fine di ogni favola che si rispetti. Carnera è stato un fumetto e un attore, un uomo che ha smosso le folle in Italia e all’estero, e ingolosito i gerarchi fascisti. Un meraviglioso testimonial. Si trattasse di una macchina da cucire. «Solo la Necchi mi resiste», diceva lo spot. O della Magnesia San Pellegrino, pubblicizzata tuffandosi nell’autoironia. «Mi servirà per digerire il boccone amaro e ritemprarmi per la rivincita». Carnera era il personaggio per una storia da film o lo è diventato in un racconto di Osvaldo Soriano per descrivere un colosso di due metri di stazza: un carnera con la «c» minuscola. Era l’uomo forzuto per eccellenza. «Chi ti credi di essere? Un Carnera?». L’immagine di un camion gigantesco, di un autotreno che sfreccia sulle strade. Ieri era Carnera, oggi è Tir.
Carnera è stato nei racconti, nei fumetti, nelle immagini dei libri per ragazzi quello che sarebbero diventati Superman e Tex Willer. La boxe, quella sì, è servita per creare mito e leggenda. Ci voleva un titolo da campione del mondo perché Primo restasse nella memoria non solo di noi italiani, ma di un mondo intero. Non è un caso che tutti i libri pugilistici americani ricordino Carnera, più ancora di Benvenuti. The Ring, la bibbia statunitense, lo incoronò come «Italian heavyweight sensation». Pochi badavano alla sostanza della sua boxe che era grezza, tanti si rifacevano a quel monumento umano che immortalava l’eccesso: Carnera che alza con una mano sola un’auto per salvare dei poveretti, Carnera che solleva e porta via tronchi d’albero come neppure una gru. Carnera che solleva uomini e belle donne come capitava quand’era Jean il terribile, il gigante basco di Guadalajara che sosteneva tre nani e un bue, piegava sbarre di ferro e sollevava incudini da 150 kg. A Broadway dissero che aveva scarpe grandi quanto la custodia di un violino. E ne fecero un uomo da film. Lo misero al fianco di Myrna Loy e Jean Harlow con lo sguardo ammiccante ai suoi muscoli. Lo affiancarono a Charlie Chaplin e Bob Hope («La grande notte di Casanova») a Diana Ross e Janet Leight. In Italia fece cast con Sylva Koscina e Isa Miranda, Totò e Fosco Giacchetti.
Il pugile era sovrastato dal Personaggio: «L’Alpe che cammina», la «torre di Gorgonzola» come lo chiamavano gli americani, nomignoli intinti nello spregiativo e divenuti simbolo di una dimensione inarrivabile, favolistica. Scrisse Orio Vergani: «Carnera, seppur non siamo mai stati compagni di scuola, seppur sia di parecchi anni più giovane di me, è stato un mio compagno di infanzia, perchè l’infanzia non finisce mai finché crediamo alle favole, alle fate, ai gnomi, ai coboldi, alle streghe, ai mostri, agli idoli, a Peter Pan e ad Alice».
Più che Primo, Carnera fu unico. Piaceva al principe di Galles che lo invitò a pranzo, sfidando la sua voracità. Umberto II di Savoia fece fermare un treno per salutarlo alla stazione di Venezia.

Mussolini telegrafò a New York, quando vinse il mondiale, per fargli sapere: «Sei il genuino rappresentante della razza italiana, solida, forte e generosa». Carnera fu un prodotto ad uso e consumo di tutti e un uomo nobile non solo un maciste. È nato cent’anni fa per esistere sempre. Come in una favola. Da raccontare anche ai bambini di oggi.

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