Gigi Proietti torna mattatore per Petrolini

Debutta al Brancaccio «Ma l’amor mio non muore» costruito su sketch e testi del celebre autore di cui ricorrono i 70 anni dalla morte

Alessandra Miccinesi

Frac, cerone, moine, e sberleffi. Proietti rifà Petrolini. Da questa sera sulle tavole del Politeama Brancaccio re Gigi si divertirà col pubblico - pronto a interagire con l’istrionico affabulatore di A me gli occhi please (di cui si festeggiano i 30 anni) -, a giocare con l’istrionismo e l’ecletticità, dell’imperatore Ettore inventore della macchietta dei Salamini. Sguardo sornione e bocca atteggiata in una smorfia amara, Proietti è pronto a cavalcare il mito dei caratteri petroliniani entrando e uscendo («certe corenti d’aria») dai panni dell’elegantone del varietà Gastone, del calzolaio-filosofo Archimede, del vanesio sciupafemmine Benedetto Buriana e altri ancora.
Storie, canzoni, e invenzioni. Proietti ha battezzato il suo show, lo spettacolo camuffato da recital Ma l’amor mio non muore, come la cantilena creata da Petrolini parodiando il titolo di un film muto del 1913 con Mario Bonnard. Lo spettacolo è un doveroso omaggio allo spirito acceso e all’anima tagliente di un attore simbolo di una romanità sparita, che nel settantesimo anniversario della morte diventa quasi un’urgenza. Dice in proposito il regista e mattatore Gigi, che in proscenio sarà coadiuvato da sei attori, comprese Sandra Collodel e Paola Giannetti, più una grande orchestra in buca: «Petrolini non mi ha dato nulla, me lo sono preso! L’ho rielaborato partendo da vecchi spezzoni sgranati di commedie e frammenti di sonoro gracchianti, perché volevo preservare la memoria di un attore pratico, non di un teorico: gli piacevano le commedie patetiche, ha anticipato il varietà e gli straniamenti brechtiani».
Aitante in mezzo alle scenografie di Alessandro Chiti, e ringalluzzito dalle fughe dal testo provocate dai suggerimenti della platea («infilerò qua e là battute di politica e attualità»), oltre le quinte Proietti vibrerà corpo e anima nel rimescolare, ironizzare, sfrugugliare, mordicchiare, alludere, e stuzzicare con una guerra di parole amplificata dalla sua inimitabile mimica. «Non farò uno show virgolettato, perché di Petrolini mi interessa la ciccia. Cercherò di dare un’idea del teatro misterioso che faceva, di quella comicità surreale che faceva ridere e che speriamo che regga ancora».
La scommessa pare già nel sacco, vista la straordinaria contemporaneità dell’inventore di irresistibili macchiette, antesignano di uno slang che saltava dal tormentone «ti è piaciato?» alla battuta ficcante «non discendo dalla scuola dell’arte, ma dalle scale di casa mia».
Ma l'amor mio non muore è più di un semplice monologo su cui sbocciano canzoni popolari o fiorisce inchiostro al veleno. È un discorso teatrale lungo una carriera (quella di Proietti, che per la prima volta fece Petrolini al teatro Argentina nell’83 grazie a un lavoro di incastro suggeritogli da Gregoretti), fatto a briglie sciolte col pubblico che nel finale dovrà contaminare un copione scritto solo per quattro quinti. «Non aggiungo niente a questo rimasticamento petroliniano. Il canovaccio è una traccia per nuove semine e innesti degli attori». Due le eccezioni: Gastone, un capolavoro della macchietta riproposto con gli onori, e Nerone, del quale verrà dato solo un assaggio. E mentre il bulletto Benedetto Buriana, antesignano di certi prototipi di maschio ripresi da Alberto Sordi, andrà in scena riscritto in forma di commedia, tra slittamenti e canzoni Proietti regalerà agli affezionati una nuova perla: Archimede (dalla farsa popolare Per amore e per diletto). «Chi è? È il calzolaio con la sedia di paglia e gli arnesi da lavoro sparpagliati sopra, che sta in piazza a fare le suole». Un filosofo proletario che fa un mestiere sparito e parla con piglio dantesco. «Tra uno strafalcione e uno sproloquio vive immerso nell’umanità che gli passa davanti.

È un personaggio d’altri tempi» mormora Proietti, ultimo erede di una dinastia di imperatori dall’aria grifagna e la battuta in canna, sempre pronto a esorcizzare la malinconia della vita con un ghigno. O uno sberleffo.

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