Una sigla, una griffe, un codice nemmeno tanto segreto, perché conosciuto in tutto il mondo dello sport, che va ad identificare uno dei più grandi sportivi di tutti i tempi. Sei lettere: Merckx. Sei lettere per evocare il più forte ciclista di ogni epoca, che oggi taglia il traguardo dei 60 anni. «Non mi sembra un gran traguardo. Se ne compissi cento sì che sarebbe un bel traguardo. Ma come si dice in questi casi: quello che conta è la salute. E adesso la salute è tornata: ho perso trenta chili. Ne pesavo oltre 110, adesso sono sceso a 80. Una necessità. Mangio meno e pedalo un po' di più».
Come festeggerà questa ricorrenza?
«Con mia moglie e miei figli. Niente di ufficiale».
Si aspettava di più dal ciclismo?
«No, ho avuto molto di più di quanto mi aspettassi». L'avversario che l'ha fatta soffrire di più?
«Godefroot e De Vlaeminck nelle classiche, mentre Felice Gimondi è stato l'avversario più completo, del quale ho sempre riconosciuto la grandezza: per temperamento, per valore e per lealtà sportiva. La sconfitta di Barcellona '73 mi brucia ancora. Oltre a Felice metterei anche altri due grandi rivali: Ocana e Thevenet».
Che ricordi ha dell'Italia?
«Bellissimi, e non potrebbe essere altrimenti. Ho trascorso da voi nove anni di carriera agonistica, prima con la maglia della Faema (dal '68 al '69: 75 vittorie) e poi con quella della Faemino ('70: 52 vittorie) e della Molteni (dal '71 al '76: 246 vittorie). La prima corsa disputata da voi è stata la Sanremo del '66 e l'ho vinta. In Italia comunque ho imparato cosa significasse fare il professionista. Adorni ad esempio mi ha insegnato moltissimo».
Lei si sente davvero il più grande?
«Guardi, io mi sento soprattutto Eddy Merckx, e credo di aver dimostrato chiaramente a tutti che nel mio periodo sono stato il più bravo di tutti. E questo mi basta».
Se non fosse diventato il più forte dei ciclisti, che cosa le sarebbe piaciuto fare?
«Ho giocato a buon livello a basket e calcio. Il mio idolo era Pelè. Mi sarebbe piaciuto fare il calciatore...».
Si ricorda la prima corsa?
«Avevo 14 anni. Mi presentai a Laechen, dietro il giardino del re, accompagnato da mio papà Jules. Pedalavo su una bicicletta troppo grande per me, e arrivai sesto, ma solo perché davanti a me ci fu una caduta».
E la prima vittoria?
«Non si scorda mai. Dopo tredici corse arrivò finalmente la vittoria. Era il 1° ottobre ed eravamo a Petit-Enghien. Che gioia».
La vittoria che ricorda con maggiore piacere?
«Non ho dubbi: la maglia gialla al Tour '69. Era il mio primo Tour, venivo dalla delusione del Giro e quando entrai nel velodromo della Cipalle, a Parigi, avevo la pelle d'oca».
E il giorno più brutto?
«Anche in questo caso non ho dubbi: Savona '69. Mi rispedirono a casa per doping, incastrandomi con una positività assolutamente strumentale. Chi fu a fregarmi? Non lo so, e francamente non lo voglio sapere. So solo che il giorno dopo andai al centro tossicologico di Milano e il professor Lodi eseguì le analisi che risultarono negative. Quando tornai a casa, ricevetti settemila lettere di solidarità».
Cosa pensa di Lance Armstrong?
«Che è un grande, ha fatto cose da autentico fuoriclasse, ma solo una volta all'anno: al Tour de France. Ma lui almeno lo capisco: ha dovuto prima battere il cancro e poi ha fatto quello che ha fatto in sella alla sua bicicletta. I suoi avversari, in questi anni, hanno invece preparato solo una corsa come Lance, ma hanno sempre perso».
Armstrong è ancora l'uomo da battere al Tour?
«Io penso che riuscirà a cogliere il suo settimo sigillo».
E dopo Armstrong?
«È difficile dirlo, ma vedo molto bene Ivan Basso, anche se al Giro non mi ha del tutto convinto».
Tolto Merckx, chi ritiene il corridore più grande della storia?
«Tolto Coppi, Bernard Hinault: grandissimo, come pochi altri».
Che idea si è fatto della vicenda Pantani?
«Che non è morto per il ciclismo, ma per essere finito nel tunnel della droga».
Va ancora in bicicletta?
«Quando posso sì, mi rilassa moltissimo. E poi fa bene».
Ha un sogno nel cassetto?
«Ne ho realizzati tanti. Oggi chiedo solo la salute».
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