Milano - Quello che il settimanale Newsweek ha titolato come «Il più grande esperimento di sempre», è iniziato ieri con un minimo, ma poco svizzero, ritardo: l’Lhc si è acceso alle 9.29, l’esperimento è partito poco dopo. Poi, però, sono filati via lisci tutti i passi - i primi, i più importanti - di quello che vuole essere un affascinante percorso a ritroso nel tempo alla ricerca di che cosa avvenne 14 miliardi di anni fa, quando dal Big Bang nacque l’Universo.
La principale speranza degli scienziati che seguono il progetto Lhc, al Cern di Ginevra, è riuscire a «fotografare» il Bosone di Higgs, ovvero «la particella di Dio», mai osservata in natura, ma ipotizzata come ciò che diede corpo alla materia. E saranno quattro gli esperimenti (Cms, Atlas, Alice e LhcB) che studieranno nei mesi e negli anni a venire i risultati delle collisioni - le prime sono previste a metà ottobre - tra particelle lanciate (alla temperatura di 271 gradi sotto zero) a una velocità tale da farle incrociare 40 milioni di volte al secondo nell’anello sotterraneo di 27 chilometri.
A che cosa potrà servire tutto ciò? Alla domanda - legittima - del comune mortale, Umberto Dosselli, vicepresidente dell’Infn, l’Istituto nazionale di Fisica nucleare, risponde senza esitazioni: «Il primo e più importante risultato resta la conoscenza». È da lì che poi deriva e può derivare tutto, anche ciò a cui ora non pensi. Dosselli cita per fare un esempio i passati studi sull’antimateria, che hanno portato alla scoperta degli adroni, ora utilizzati come rivelatori nell’esame di diagnosi oncologica chiamato Pet, che produce immagini tridimensionali o mappe dei processi funzionali all’interno del corpo umano.
E sempre restando nella lotta al cancro, già sugli odierni adroni, ma a energia ben più bassa rispetto a quella ottenibile un domani grazie all’Lhc ginevrino, si basa la adroterapia che anziché i raggi X usa appunto queste particelle subatomiche che colpiscono il tumore in modo selettivo, risparmiando i tessuti sani. E anche più efficacemente, potendo uccidere quelle cellule tumorali resistenti ai raggi convenzionali.
Da una scoperta (la conoscenza, appunto) ne possono insomma derivare altre. Inattese. Tutte da scoprire. Fino a 15 anni fa il cosmo era per esempio pensato in modo differente e ignoravamo che il genere di materia di cui sono fatte le stelle, i pianeti, gli oceani e noi stessi che componiamo il genere umano è appena il 5% di tutto ciò che esiste nell’Universo, che resta ancora il dominio di ciò che gli scienziati chiamano non a caso «materia oscura».
Ed è su questa sconfinata zona d’ombra della conoscenza che il progetto ginevrino del Cern, con i suoi apparentemente incomprensibili scontri tra protoni, intende fare luce. E la farà, perché la conoscenza è come la vite: dà frutti a grappolo, spesso inconsapevoli. «Per esempio - ricorda Dosselli - negli anni ’90, per far circolare i dati ottenuti con il Lep del professor Carlo Rubbia (il Lep fu il papà dell’odierno Lhc) eravamo ricorsi a una cosa chiamata Web. Qualcosa che ha dato una buona mano a noi, ma che di certo ha anche sconvolto il mondo».
Così, nell’urlo di esultanza che al Cern ha accolto la prima corsa di protoni, ci stava tutto l’orgoglio degli scienziati.
E ci sta tutta, in quell’urlo, anche la sportività di Newsweek. Che parlando del progetto, oltre a dedicargli la cover story lo ha definito «il sintomo del declino americano nella fisica delle particelle e del sorgere dell’Europa».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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