Le ultime notizie giunte dall’Australia (dove il premier Julia Gillard è impegnato in una lotta al gioco d’azzardo, al punto da prevedere l’utilizzo delle impronte digitali) e dalla Finlandia (che ha deciso una «stretta» repressiva in materia di fumo: chi dà sigarette ai minori rischia il carcere) ci rappresentano un Occidente sempre più determinato a ridurre gli spazi della libertà individuale al fine di proteggere una certa idea di moralità e società ordinata. Non vi è alcuna ragione di esaltare la nicotina o celebrare la dipendenza da casinò (oggi aggravata dalla possibilità di giocare on line), ma certo deve fare riflettere questo progetto sottilmente autoritario che va prendendo corpo un po' ovunque e che punta a ridurre sempre più gli spazi di autonomia e responsabilità individuali.
Non si tratta di tendenze del tutto nuove, sia chiaro. Stiamo anzi facendo i conti con il consolidarsi di fenomeni le cui origini sono remote: basti pensare al moralismo intollerante dell’età vittoriana e, nel Novecento, al proibizionismo statunitense in materia di alcolici. Contrariamente a quanto talora si sente dire, non è infatti all’interno delle società di tradizione cattolica che il più delle volte emergono queste nuove crociate (anche se poi non mancano da noi quanti riprendono tali battaglie), perché esse provengono dai Paesi protestanti e tuttora trovano lì le loro manifestazioni più radicali. Queste iniziative politiche non solo appaiono demagogiche, ma segnalano un disprezzo per la libertà individuale che nulla ha a che fare con l’autentico spirito evangelico. Nella Bibbia il Creatore attribuisce all’uomo la facoltà di agire bene o male, essere santo o peccatore. In questo quadro al diritto può essere attribuita la sola funzione di evitare quei peccati che hanno ricadute sugli altri, comportando una lesione di ben precisi diritti. Dovrebbe insomma essere legittimo bere whiskey a casa propria, ma certo non può esserlo guidare ubriachi, dato che in questo modo si mette a rischio l’incolumità del prossimo. Ma perché ciò sia possibile è necessario che vi sia un sacro rispetto per la dignità di ognuno e per le scelte di vita che egli compie.
Bisognerebbe una buona volta imparare, come sosteneva l’americano Lysander Spooner in un suo scritto del 1875, che «i vizi non sono crimini». Farsi del male è eticamente sbagliato, ma non va impedito con norme di legge e sanzioni penali. In tutto questo non vi è nulla di relativistico, perché i vizi rimangono tali: questo però non toglie che il diritto abbia limiti precisi, che non deve assolutamente superare. Come si è arrivati, però, a tutto ciò? Molto dipende, come s'è detto, dal degradare della morale in moralismo. Ma certo una parte della responsabilità va pure attribuita alla progressiva collettivizzazione delle nostre società, dato che nel Novecento il potere si è dilatato in ogni direzione. Quando sanità, educazione, vengono statizzate, è chiaro che l'individuo non è più un singolo, ma è trasformato nella cellula di un più ampio corpo sociale. In tale situazione, il legislatore si sente autorizzato a imporre ovunque la propria volontà.
Per giunta, l'espansione del welfare State ha svuotato la famiglia; e quindi a molti oggi appare legittimo che scelte un tempo riservate ai genitori siano assunte dal nuovo sovrano parlamentare. È però un mondo ben triste quello che si va profilando, come hanno mostrato taluni letterati di quell’avamposto del moralismo di Stato, che assolve i colpevoli e criminalizza gli innocenti, che sono i Paesi dell’Europa settentrionale. L'uomo che voleva essere colpevole, il danese Henrik Stangerup descrive una socialdemocrazia a venire in cui nemmeno l'omicidio è ricondotto alla responsabilità individuale: e infatti il protagonista si batte per ottenere il riconoscimento del suo crimine, che non può essere attribuito all'intera società.
Egli comprende che se non è imputabile dei propri errori, nulla nella sua vita mantiene consistenza.Sono le «utopie negative» alla Orwell, insomma, che aiutano a capire il presente. E anche questo non è un bel segnale.
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