Il giorno in cui avrei voluto fare un altro mestiere

(...) Io, a furia di raccontare storie raccappriccianti, a furia di sentire moventi deliranti, a furia di particolari sempre più disumani, a un certo punto non ce l’ho fatta più. Sono crollato, ho pianto, ho spento il computer e ho scelto l’unica strada che conosco: la preghiera, la pietas. Quella pietas che, invece, non ho visto in una certa ricerca scandalistica dei retroscena, sui giornali e in televisione: il «coca-party», l’«amante», la «relazione episodica», il «lusso», la ricerca di particolari pruriginosi, per accontentare la pancia di lettori e telespettatori.
E Ale? E il bambino con il ciuccio con lo sguardo curioso? In qualche racconto è trattato come una comparsa, quasi uno sfondo di una storia di sesso e droga, di perversioni malate. Mi piacerebbe, invece, che Ale, con la sua innocenza, fosse il protagonista. Che di questa storia lugubre e laida e terribile e assurda restasse il suo sorriso, il suo ciuccio, i suoi occhi golosi di particolari e di vita. Golosi di imparare.
Mi piacerebbe che anche noi giornalisti ci fermassimo, ci guardassimo in uno specchio, capissimo che viene il momento di dire basta.
C’è una storia, che ricordo spesso, che grida ancora vendetta. Ed è la storia del bimbo di via Gibilrossa fra Quarto e Quinto che, giocando con il fucile del papà, disgraziatamente carico, si sparò e morì. I giornali, a tratti, diedero l’impressione di fare il tifo perchè fosse stata la mamma, giusto per titolare «la nuova Cogne». Poi, la mamma non c’entrava niente.

Ma nessuno chiese scusa a una famiglia che già aveva subito un dolore fortissimo per la morte del figlio e che si trovò ad essere additata. Nessuno.
Chiaramente, stavolta, siamo di fronte a una storia completamente diversa. Ma l’umanità, la pietas, il cuore, l’essere uomini prima che giornalisti, questo ci piacerebbe non dimenticarlo. Mai.

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