Roma - A Natale si può andare ai Caraibi, senza muoversi da casa. E si può sognare, amare, piangere, o ridere di tenerezza, tuffando gli occhi e il cuore nel drammatico film di Mike Newell, abile a rendere una sola due malattie mortali. S’intitola L’amore ai tempi del colera il cineromanzo (da venerdì nelle sale) tratto dall’omonimo libro del colombiano Gabriel García Márquez, premio Nobel nel 1982, noto per Cent’anni di solitudine (nella collezione Oscar Mondadori, i titoli del massimo scrittore vivente). Tra l’altro, l’autore, già sul punto di morire, ha collaborato con il regista inglese, che contando al suo attivo successi internazionali come Quattro matrimoni e un funerale o Harry Potter e il calice di fuoco, ha avuto il fegato di gettarsi nell’impresa di portare, sullo schermo, la complessità narrativa di Marquez. Ma con un cast che allinea, sul fronte del fuoco passionale, lo spagnolo Javier Bardem (Florentino, che attende la sua lei «cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni»), la nostra Giovanna Mezzogiorno (Fermina, dai sedici ai settantadue anni con uguale, vibrante intensità) e l’americano Benjamin Bratt (il prestante marito di lei), per tacere delle figure minori, non meno valide, sulla carta la guerra del pubblico è vinta. Però tot capita, tot sententiae: negli Usa (dove il film è uscito), prevale lo sghignazzo e nel Sudamerica il singhiozzo. In Italia, dove seguiamo accorati gli amori improbabili, si vedrà.
Intanto, c’è da godersi una storia di speranza e di rinascita, il che coincide con le aspettative universali, mentre l’anno finisce. Perché nella Cartagena di fine Ottocento, descritta con rutilanza di colori, tra mercati di frutta e cortili fioriti, dove la seducente figlia (Giovanna Mezzogiorno) d’un mercante di muli (John Leguizamo) tronca la sua relazione di lettere e di sguardi con il telegrafista Florentino, l’amore da subito s’annuncia col suo carico di dolore. Mentre la popolazione è stretta dall’abbraccio del colera, lo scrivano respinto vomita, ma la sua è febbre di passione. «Soffri, figliolo: tale genere di cose capita una sola volta nella vita», lo consola la madre, che sa quanto valgano quei tormenti. La stessa, poi, gioirà, alle urla di piacere d’una vedova, posseduta dal figlio, forse libero dall’incantesimo. «Il mio personaggio, moderno quando segue il padre, per scegliere non l’amore romantico, ma il matrimonio con un uomo solido, era difficile. Anche per il processo d’invecchiamento, del quale non mi curo, quando si tratta d’un film così bello. Ma non è lei la parte romantica nella storia. Mi sorprende la determinazione di Fermina, che per cinquant’anni ignora il suo lui, per poi, una volta vedova settantaduenne, unirglisi. Capisco lei ventenne, spaventata dall’eccesso, né so se sarei stata coerente come lei», ammette la Mezzogiorno, compresa della propria maturità artistica, gli occhi brillanti d’acquamarina, che il trucco di scena non spegne. «Ho lavorato sulla voce, accettando la sfida di Newell, né sapevo se mi avrebbe preso per fare solo la parte dell’anziana. A Cartagena eravamo spaventati dal lavorone, sia fisico che psichico. Ho letto Marquez e L’amore ai tempi del colera mi pare il più cinematografico. Ignoro come il film non duri sei ore!», narra l’attrice romana, la cui esperienza, nel segno di Peter Brook, è servita da garanzia.
La voce brunita, l’incedere da vecchina, la dolcezza materna con cui s’abbandona alla stretta senile del partner (notevole Bardem come dongiovanni compulsivo), la Mezzogiorno tocca lo zenith della sua costellazione d’attrice di rilievo internazionale. «Ho scelto Giovanna per i suoi occhi. E perché è un cavallo da corsa. Con Marquez c’è stata fitta corrispondenza e rispetto: quando ha visto il mio film, ha esultato», riferisce Newell.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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