Ormai convive col grande successo, che non lo ha cambiato artisticamente ma lo ha reso più forte psicologicamente. Insomma Giovanni Allevi è sempre il giovanotto disponibile, garbato e un po’ naïf degli esordi, soltanto un po’ meno ansioso. «Un giorno per un attacco di panico mi portarono all’ospedale - ricorda allegro - e mentre ero in ambulanza composi nella mia testa un intero disco. Oggi sono più tranquillo e questo si riflette nelle mio lavoro». Per questo il suo nuovo album, Alien, è più impegnativo; undici «sonate» (con parecchi brani che durano 7 minuti e uno quasi un quarto d’ora) in cui sviluppa il suo stile in una sintesi di vasta risonanza, al tempo stesso classica ed attuale, commerciale (leggi fruibile da tutti) e di qualità.
Dai brani brevi alla «sonata»: si mette sempre alla prova.
«Voglio allargare il mio spazio compositivo a temi più complessi come le sonate che permettono di creare climi differenti e maggiore emozione. Questo disco è un azzardo».
Perché?
«È musica fuori dai canoni radiofonici e televisivi, e in più diversa dai brani brevi che il pubblico è abituato ad ascoltare da me. Ma io non inseguo il successo commerciale, tanto che ci ho lavorato quattro anni, anche nelle pause delle tournèe e delle incisioni degli altri album».
Ma è proprio vero che il successo non le interessa?
«Certo fa piacere che la gente apprezzi il mio lavoro, però suono sempre e soltanto ciò che sento. Non devo dimostrare nulla, non voglio raggiungere alcuno status, non mi interessano le critiche o i giudizi; nel senso che li ascolto e proseguo per la mia strada».
Lei ha avuto valanghe di allori ma anche un bel po’ di critiche: qualcuna che l’ha infastidita ci sarà.
«La critica è importante quando è costruttiva. Ma spesso nasce da chi ha paura del nuovo o teme di esser messo da parte; o da una particolare situazione psicologica. So che persino un maestro come Keith Jarret ha avuto da dire sul duetto fra Herbie Hancock e Lang Lang, si figuri cosa possono dire di me».
E lei degli altri pianisti che vanno per la maggiore oggi cosa pensa?
«Li ammiro e mi piacciono. Ognuno fa le sue cose sul terreno che gli è più congeniale, e poi la parola passa a chi compra i dischi».
E se arrivasse un nuovo Allevi? Un pianista nel suo filone?
«Ben venga. Se ci sono si facciano avanti, io sono pronto al confronto e alla sfida».
Un tempo, a suo dire, l’uscita di un album la metteva in grande ansia. Oggi ha uno stato d’animo completamente diverso.
«Sono sereno con un pizzico di inquietudine. Sono diventato abbastanza saggio per sapere che ho fatto del mio meglio e che il cd venderà quanto è giusto che venda e sarà criticato ilgiusto».
Agli esordi l’abbiamo definita Harry Potter. Ora lei si definisce «alieno».
«Sono alieno perché sono vero. In un mondo che ci vuole finti e ci spinge ad assumere modelli di comportamento preconfezionati resterò sempre alieno. La società ci vuole tutti forti e vincenti: io affermo la mia fragilità e la mia vulnerabilità. Infatti nella foto di copertina del disco mi spoglio, come a dire che esco dallo spazio e dal tempo, da ciò che ho fatto e che farò».
A proposito, lei ha fatto di tutto, ha suonato ovunque,dal Senato alla Cina agli States, da solo e con l’orchestra sinfonica. Cosa le manca?
«Mi prenderete per matto. Uno dei pezzi del nuovo cd si chiama Tokyo Station. Ecco, mi piacerebbe piazzare un pianoforte alla stazione di Tokyo ed eseguirlo lì in mezzo alla gente, questo è il mio sogno».
Anche questo disco farà il giro del mondo?
«Sì, farò una anteprima lunedì a Lugano dove l’ho inciso, poi lo suonerò dal vivo a Los Angeles e in seguito in Giappone, dove il pubblico mi adora. Però presto tornerò anche a dirigere l’Orchestra sinfonica.
Cosa pensa uno come lei dei talent show?
«Mi piacciono perché sono profondamente democratici; chi ha
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