La barba lunga, il freddo del carcere tenuto a bada con una felpa tirata fin sul mento. L’uomo che ieri pomeriggio entra nel cortile del tribunale di Cremona è la controfigura del campione che fino a sei mesi fa trascinava un’intera squadra e un’intera provincia. Cristiano Doni è in cella da quattro giorni e quattro notti. Ieri viene il momento di scegliere: negare tutto, come aveva fato quattro mesi fa, quando si era trovato davanti gli ispettori dell’Ufficio Inchieste della Federcalcio. O confessare, sgravarsi, ammettere di essere stato inghiottito dal vizio irrefrenabile che ha divorato campioni anche più grandi di lui. E dire addio al calcio giocato.
Doni confessa. Come è umano, cerca di sminuire. «La sua posizione si è notevolmente ridimensionata», dice il suo legale Salvatore Pino, uscendo dalle due ore di faccia a faccia con il giudice preliminare Guido Salvini, mentre il cellulare riporta il bomber nel carcere di via Palosca, sperso tra ai campi gelati e l’autostrada. Per due dei tre incontri dell’Atalanta che è accusato di avere combinato a tavolino (contro Piacenza e Ascoli) gli elementi sono talmente dettagliati che negare l’evidenza servirebbe solo a candidarsi a passare in carcere non solo le festività ma anche un bel po’ di tempo in più. D’altronde, come ammette onestamente anche il difensore del calciatore, «la ricostruzione degli inquirenti è stata certosina e le premesse dell'inchiesta non sono ribaltabili»
Piena ammissione su Ascoli-Piacenza. «Su Ascoli-Atalanta - spiega il legale - Doni ha fatto qualche distinguo», mentre ha detto di sapere poco e nulla di Padova-Atalanta, non a caso l’unico match dove è accusato di avere puntato non sulla vittoria ma sul pareggio della sua squadra. Ma sono dettagli. La battaglia difensiva di Doni e del suo legale si gioca tutta sul capo d’imputazione più grave, quello per associazione a delinquere. Ed è qui che ieri l’ex capitano atalantino cerca con più determinazione di ritagliarsi un ruolo defilato. La stessa Procura, d’altronde, lo considera poco più di una pedina della banda. Ma è una pedina che, per il suo ruolo e il suo prestigio, ha svolto un ruolo cruciale.
E poi: che ruolo ha avuto l’Atalanta nei trucchi organizzati da Doni? Il capo d’accusa mosso all’ex capitano è - in tutta l’indagine cremonese sul calcioscommesse - l’unico dove si ipotizza senza mezzi termini un ruolo diretto dei vertici del club nell’addomesticare i risultati. Doni è imputato per avere agito «anche per conto di imprecisati dirigenti della società, che aspirava alla promozione in sere A».
In due delle partite che gli vengono imputate - quelle con Ascoli e Piacenza - Doni è accusato di avere lavorato per la vittoria dell’Atalanta, corrompendo per conto degli «imprecisati dirigenti» giocatori abbordabili delle squadre avversarie (come il difensore piacentino Gervasoni, oggi anche lui in cella). Insomma, in questi casi Doni non agiva come uomo del clan delle scommesse, ma direttamente come ufficiale corruttore agli ordini dei vertici atalantini.
Di questo, a quanto pare, nell’interrogatorio di ieri non si è parlato. Del «secondo livello» Doni verrà chiamato a raccontare quel che sa in un secondo momento, davanti al procuratore della Repubblica Roberto Di Martino, che subito dopo Natale inizierà una seconda tornata di interrogatori degli arrestati di lunedì scorso. Per il momento, a verbale restano le ammissioni di Doni sul proprio ruolo in due delle partite sotto esame. Ammissioni che vano ad aggiungersi alle confessioni dei giorni scorsi degli altri fermati (ad eccezione dell’ex Inter e Roma Gigi Sartor, unico a avere fatto scena muta davanti al giudice). Una alacrità confessoria che ieri sera porta il gip Salvini a dire ai cronisti: «Abbiamo avuto conferme di quasi tutti gli episodi contenuti nell’ordinanza di custodia cautelare». Forse già oggi Doni e gli altri potrebbero lasciare il carcere.
Si ripete, insomma, lo scenario della prima fase dell’inchiesta, quando a giugno gli arrestati fecero a gara nel cantare.
Il problema è: queste ammissioni consentiranno all’inchiesta di fare il salto di qualità che è il vero obiettivo degli inquirenti, alzando il tiro sui veri signori del traffico dei gol e delle papere? Nel mirino degli investigatori ci sono due obiettivi: uno sono i vertici delle squadre di calcio, che - con la pratica universalmente nota del «biscotto», l’accordo sottobanco per predeterminare il risultato nel reciproco interesse - sono i primi ad alterare il naturale corso del campionato; il secondo è il racket internazionale che sulle disonestà grandi e piccole del mondo del calcio costruisce le sue fortune. La partita vera, spiegano fonti assai vicine alla panchina dell’indagine, si giocherà a campionato finito.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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