Giudici schierati: il diritto annega tra le correnti

Intervenendo nel dibattito pubblico, il dott. Palamara, presidente della Associazione nazionale magistrati, ha sostenuto che le critiche da più parti mosse alle correnti in cui si divide la magistratura non debbono mai trasformarsi in demonizzazione delle stesse,

Intervenendo nel dibattito pubblico, il dott. Palamara, presidente della Associazione nazionale magistrati, ha sostenuto che le critiche da più parti mosse alle correnti in cui si divide la magistratura non debbono mai trasformarsi in demonizzazione delle stesse, perché comunque esse rappresentano qualcosa di positivo. Non credo proprio che le cose stiano così per i seguenti motivi.
È evidente infatti come la corrente, ogni corrente di qualunque colore, manifesti una precisa coloritura ideologica che è quella e non un’altra. Prova ne sia che è proprio in forza di tale valenza ideologica che ogni magistrato, sentendola a se affine, aderisce all'una corrente o all'altra.
Così, se un magistrato si sentirà più sensibile al cosiddetto «progressismo giuridico», vale a dire alle varie istanze sociali ed alla disciplina nuova che esse sembrano invocare, egli sarà portato ad aderire alla corrente di «Magistratura democratica»: come è noto, è la tradizionale corrente della sinistra giudiziaria.
Se invece vorrà assumere posizioni di sinistra ancora più radicali, aderirà alla corrente dei «Movimenti riuniti»; se si collocherà più al centro dello schieramento politico-ideologico, su posizioni che si direbbero di centro-sinistra, allora costui farà parte di «Unità per la costituzione».
Se infine è un inguaribile conservatore, allora si schiererà con «Magistratura indipendente».
Tutto bene dunque? Per nulla, dal momento che così facendo ogni magistrato non fa altro che preannunciare, davanti a tutti e a scanso di equivoci, quale sia la propria pregiudiziale visione del mondo, dei rapporti umani e sociali, del diritto. In qualche modo, è come se egli avvertisse in anticipo tutti coloro che avranno negli anni successivi l’occasione di essere collocati sotto la sua giurisdizione, che nelle controversie a lui sottoposte, seguirà un certo metro di giudizio anziché un altro.
Si tratta in realtà di una precisa «pre-comprensione» politica che ogni magistrato dichiara fin dal primo momento di voler seguire per tutti i casi futuri nella interpretazione delle norme di legge. In tal modo, va evidentemente a farsi benedire il necessario riserbo che deve sempre accompagnare il giudice nel suo lavoro quotidiano, ma soprattutto si esibisce una ipoteca preliminare di carattere ideologico su ogni interpretazione di legge, col risultato di minare dalla base ogni possibile libertà di chi è chiamato a giudicare i propri simili e di fargli perdere credibilità sociale.
Infatti, quale libertà potrà mai custodire e mettere in essere colui che avrà preliminarmente reso di pubblico dominio il senso politico che intende fornire come base delle proprie sentenze? Evidentemente, tale libertà sarà minata dall’interno perché non avrà più spazio alcuno di manifestazione in quanto si sa già dall’inizio quale potrà essere l’orientamento del giudice.
Per esempio, un giudice di magistratura democratica potrà ritenere che in una controversia di lavoro sottoposta alla sua attenzione, il lavoratore, in quanto socialmente più debole del datore di lavoro (ammesso che oggi sia davvero così) va supportato in sede processuale nell'ambito dell'onere della prova, il quale sarà così più rigoroso per il datore di quanto lo sia per il lavoratore. Questo modo di interpretare la legge e di applicarla concretamente nei processi è stato peraltro teorizzato da diversi magistrati nel corso di pubblici convegni, di tavole rotonde, oltre che nell’ambito di pubblicazioni su riviste specializzate. Si tratta in sostanza di un vero programma politico da attuare attraverso l’esercizio della giurisdizione ed è precisamente in questo che risiede la sua pericolosità sociale e giuridica.
Perché in questo modo si fa politica non attraverso gli usuali strumenti della politica (presentazione dei programmi, captazione del consenso, prove elettorali, alleanze ecc.), ma attraverso gli strumenti del diritto.


Siamo perciò di fronte ad un pericolosissimo attacco al cuore stesso dello Stato di diritto, il quale invece chiede che diritto e politica rimangano autonomi - benché complementari - ciascuno nel proprio ambito. Altrimenti è la fine: sia del diritto che della politica.

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