Via Giulia riscopre il ninfeo Oggi ultimo giorno di visite

Liberato dalla sporcizia accumulatasi in cinque secoli, torna a splendere un gioiello del barocco romano, il ninfeo di Palazzo Sacchetti, in via Giulia 66. Oggi rimarrà aperto al pubblico per l’ultimo giorno, dalle 10 alle 19. Situato dalla parte del Tevere, il ninfeo è costituito da una piccola loggia; all’interno due nicchie con vasca, in ognuna, due satiri che sollevano un panneggio sullo scorcio di una Roma di fantasia. In cima, sorretti da figure efebiche, campeggiano i cartigli con le armi dei marchesi Sacchetti. Un florilegio di tecniche artistiche barocche, tra cui alcune davvero insolite. Oltre agli stucchi, ai mosaici, al finto marmo, spiccano per originalità le vere conchiglie, incastonate ovunque, e i festoni di fiori e frutta ricoperti da graniglia di vetro colorato. Abbondano i «tartari» (formazioni calcaree simili al travertino), utilizzati per simulare stalattiti e stalagmiti.
Negli affreschi con scene dionisiache si riconoscono alcuni monumenti, come una piramide di Caio Cestio stranamente aguzza. L’edificio, progettato per il proprio palazzo da Antonio da Sangallo il Giovane, fu trasformato in ninfeo dal Salviati, intorno alla metà del Cinquecento, per volontà del cardinale Giovanni Ricci, che aveva acquistato il complesso. Fu solo nel 1649 che il tutto fu venduto ai Sacchetti, ricchi mercanti fiorentini che avevano accompagnato le proprie fortune a quelle dei Medici. «Una grande fortuna - spiega Angelica Puja, una delle restauratrici - consiste nel fatto che il ninfeo non abbia mai subito gravi manomissioni. Così, nonostante l’accumulo di smog e concrezioni, è stato possibile restituirlo com’era». Il lavoro è stato curato da un pool di sei giovani restauratori coordinati dall’Istituto Centrale per il Restauro; consolidati stucchi e architetture, i mosaici sono stati puliti a fondo con tecnologia laser.


Esempio tipico del profondo legame di Roma con il Tevere, il ninfeo era posto a ridosso delle sue rive, per offrire ai nobili proprietari del palazzo un luogo di fresco riposo. Il suo abbandono divenne definitivo soprattutto a partire dal 1870, con la costruzione degli argini, che lo «accecarono», privandolo della vista sul fiume, sua caratteristica fondamentale.

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