Giuseppe, l’altro Pascoli poeta della meccanica

Fratello minore di Giovanni, ideò turbine, barelle e una cassetta per le lettere «antipioggia»

Le giornate a Castelvecchio di Giovanni Pascoli, sul colle di Caprona, in quel di Barga, non erano serene come le avrebbe volute, nonostante ci si fosse trasferito per trovarvi l’antica quiete dei campi che si respira nelle opere di Virgilio, uno dei suoi autori insieme a Dante. Alle liti coi vicini, tra cui il parroco Archimede Mancini che, coi fondi dei castelvecchiesi emigrati a Chicago voleva aggiungere una terza campana alle due esistenti nel piccolo campanile guastando così l’armonia delle vecchie che gli aveva ispirato L’ora di Barga, si aggiungevano i conflitti col fratello Giuseppe, considerato la pecora nera di famiglia. Incrementavano le ostilità le sorelle Ida e Maria, che Giuseppe, proprio, non avevano mai sopportato. Lo consideravano un estraneo, un intruso. E non volevano che Giovanni lo aiutasse in nessuna maniera. Tantomeno economicamente. Cosa che, invece, lui faceva di nascosto insieme agli altri fratelli.
Non gli era pertanto facile mantenere la buona armonia sia con se stesso, sia con la sorella Maria detta Mariù che, talvolta, si rivelava anche un po’ troppo invadente, benché avesse per lui una grande venerazione. Giovanni cercava, quindi, di distrarsi dal lavoro e dalle tensioni, scendendo all’Osteria al ritrovo del platano, oggi Osteria pascoliana, di Ponte di Campia. Ci sono foto che lo mostrano con la sorella mentre scende lungo una strada di polvere, altre sul calesse condotto da Lorenzaccio, loro vicino, un tipo dalla battuta facile, che un giorno ebbe il cattivo gusto di dire ad alcuni amici: «Vado da quella famiglia di matti». Saputolo, Giovanni Pascoli non ci si rivolse più. Ma Lorenzaccio, considerata l’epoca, non aveva forse tutti i torti. Pascoli non voleva che fossero tolte le api dal camino del casale; e sia lui sia Maria adoravano il cane Gulì e una capretta. Comportamenti che i contadini del borgo consideravano, a dir poco, stravaganti.
All’Osteria del platano, Pascoli comperava un sigaro toscano che divideva con Maria, e ordinava una mezzetta di vino. Bevendo e fumando, ascoltava parlare gli avventori, tra cui i carrettieri. Erano le sue distrazioni, ma anche le sue ricerche poetiche: dalle parole della gente traeva spesso ispirazione. In quel linguaggio ritrovava l’italiano del Due e Trecento, ossia il rude fiorentino, che aveva affinità col garfagnino di monte. Si racconta poi anche che Pascoli stesse molto attento alla posta: temeva che Maria potesse intercettare le lettere che Giuseppe gli scriveva, nelle quali, non mancava di chiedergli soldi. Se lontano da casa appariva allegro, fino a sembrare un buontempone, una volta rientrato alla bicocca tornava a essere cupo e pensieroso; e questo non solo per il suo lavoro. Sentiva e viveva Giuseppe come una malattia dell’anima. Ma chi era, in realtà, Giuseppe? Da alcuni documenti inediti, venuti alla luce grazie alla solerzia del Conservatore di casa Pascoli a Castelvecchio, Gian Luigi Ruggio, autore anche di una biografia sul poeta pubblicata da Simonelli editore, scopriamo che Giuseppe, nato il 21 luglio 1859, sesto figlio di Ruggero Pascoli e Caterina Vincenzi Allocatelli, era invece un uomo geniale.
«Sì - racconta Ruggio - è proprio cosi: Giuseppe fu un uomo geniale, nonostante fosse considerato la pecora nera di famiglia, ma questo, soprattutto, dalle sorelle Ida e Maria, fino a chiamarlo, in tono spregiativo, Luigi Pagliarani: esecutore materiale del delitto di Ruggero avvenuto il 10 agosto 1867 e rievocato nelle poesie di Giovanni, a eterna memoria o a nobile vendetta, come lui soleva dire, 10 agosto e La cavalla storna. Ciò la dice lunga sull’aria che aleggiava attorno a Giuseppe. Di più: Maria non vorrà nemmeno conoscere uno dei suoi figli, il primogenito, cui aveva messo il nome Giovanni, e Ida le dette man forte, aggiungendo: “Neanch’io intendo farvi conoscenza”. Ma il tempo è galantuomo e ha finito col riabilitare Giuseppe, delineandone meglio personalità e carattere. Essendo il più piccolo, dopo l’uccisione del padre e tutto quello che ne conseguì, fu gradualmente emarginato, tanto che, pur essendo stato l’unico figlio presente all’arrivo del calesse trainato dalla cavalla storna con Ruggero morto, Maria non ne farà mai menzione. Fu proprio escluso, diseredato da tutto. Perfino dal testamento di famiglia. Da ciò deriva senz’altro il suo disadattamento alla vita e la sfiducia verso se stesso. Del resto, nelle famiglie dell’Ottocento, i figli meno dotati venivano abbandonati ai margini. Tanto che i fratelli maggiori, questo credo dovuto al divario di età, non lo accettavano nei loro giochi. Lui reagiva rattristandosi, incapace di superare le difficoltà del quotidiano. Per questo si trovava in continui disagi economici, che lo spingevano a chiedere aiuto ai fratelli. Qui nascono situazioni talvolta paradossali, come si riscontra da una lettera lasciata da Pascoli in un libro dal titolo Mater iustitiae, nella biblioteca di Castelvecchio, e dove lui doveva averla nascosta per non correre il rischio che la trovasse Maria. Intanto le cose per Giuseppe cominciavano ad andare meglio, quasi un rovescio della medaglia del fratello Giovanni. Si andava affermando come inventore: non a caso uno dei suoi figli, Luigi, sacerdote, lo definirà un poeta della meccanica. Doti di cui egli non farà mai sfoggio».
Ruggio prosegue il suo racconto: «Giuseppe rimase un uomo modesto e semplice, nonostante l’importanza delle sue invenzioni. Come quella del meccanismo per l’aggancio dei vagoni ferroviari, macchine per lavorare il legno, progetti di turbine idrauliche, barelle per feriti e letti per ospedali di massimo conforto, carrozzelle per bambini. A livello di progetto illustrativo, è rimasta una cassetta per lettere: corredata da un sistema pneumatico, doveva preservare la posta dalla pioggia. Primo in assoluto, realizzò il calcolatore meccanico. Invenzioni che gli valsero ben tredici medaglie d’oro, pari a quelle vinte dal fratello Giovanni ad Amsterdam coi poemi latini. Da un documento che il nipote Guardino Pascoli, classe 1930, residente a Flero (Brescia) mi ha mandato, si legge tra l’altro: “Ottenendo numerose onorificenze come perito meccanico in esposizioni avvenute in Italia e all’estero, tra cui nel 1901 a Lione, Parigi, Bordeaux, Ostenda, Marsilia”. Ma come accade spesso alle persone geniali, ebbe una vita sentimentale disordinata. Sposata nel 1895 Emilia Pari, rimasto vedovo, passerà a seconde nozze nove anni dopo con l’insegnante Lucia Volpi di Belluno, avendo da lei ben sei figli, la quale dette finalmente un assetto sociale a quest’uomo tanto discusso e vilipeso. Morirà, stroncato da infarto, a Bolzano Vicentino il 6 marzo 1917».
Ma non sono soltanto queste le novità di casa Pascoli a Castelvecchio. Mentre continuano i lavori di restauro, fortemente voluti dal sindaco di Barga Umberto Sereni, tra cui il ripristino della foresteria, non si è mancato di impiantare una vigna originale dei tempi di Romagna, cara al poeta.

Nelle cantine, in alcune botti, si conserva il vino prodotto da lui coi vitigni fatti venire dalla sua terra e che chiese al sindaco Leopoldo Tosi nel 1905. La storia si è ripetuta. Antico sempre nuovo, soleva dire Pascoli.

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