Tradizionalmente, gli studiosi di relazioni internazionali vengono divisi in due campi, secondo una schema che oppone gli «idealisti» (un po’ ingenui, sebbene ancorati a solidi principi morali) e i «realisti» (consapevoli di cos’è davvero il mondo e del ruolo giocato dal potere, ma viziati dal cinismo senza scrupoli di chi riconosce soltanto le ragioni della forza). Va però detto che gli autori più avvertiti sfuggono a tale rozza dicotomia, come nel caso di Luigi Bonanate nel suo volume su La crisi. Il sistema internazionale vent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, edito da Bruno Mondadori e in vendita a 15 euro.
Lo studioso torinese legge gli ultimi due decenni - il mondo dopo il crollo dell’Unione sovietica, in altre parole - concentrando l’attenzione non tanto sui puri fatti, quanto sulle trasformazioni strutturali conosciute dai rapporti che dominano lo scenario internazionale. E in questa sua interpretazione egli evidenzia come la promessa di un’umanità pacificata, quale era emersa nell’89, abbia lasciato il posto ad un disordine inquietante, dominato dal contrasto tra la vocazione unilateralista degli Stati Uniti e un terrorismo che talora appare inafferrabile. L’universo bipolare della guerra fredda, che in ragione del pericolo nucleare aveva reso impossibile lo scontro frontale, sarebbe insomma stato sostituito da un’anarchia potenzialmente ben più pericolosa.
Nel ricostruire l’evoluzione degli ultimi vent’anni, Bonanate delinea un primo decennio contraddistinto da «ottimismo», il quale entra in crisi con la guerra del Kosovo e viene poi definitivamente spazzato via dall’attacco alle Twin Towers, con cui inizia la fase del «pessimismo».
Il politologo è assai critico nei riguardi della recente politica statunitense e del realismo (non privo di tratti messianici) di taluni ideologi neoconservatori. A suo giudizio, una politica estera basata sui bombardamenti e sulle invasioni militari non può produrre effetti positivi, poiché l’Occidente non deve «esportare la democrazia» con le armi, ma favorirne uno sviluppo dal basso.
È comunque fuori discussione che nell’aspro confronto tra la democrazia e la globalizzazione (e quindi tra la sovranità democratica e l’internazionalismo dei mercati liberi) Bonanate sposi la prima. Nel momento in cui rigetta l’anarchia internazionale in nome di istituzioni globali possibilmente sempre più autorevoli, lo studioso scova un nesso tra libertà economiche e disordine mondiale, finendo per promuovere un sistema in cui i mercati siano regolati e gli spiriti animali del capitalismo messi sotto controllo. Una visione un tantino statalista e manichea. D’altra parte, una delle sue tesi è che «la globalizzazione, anarchica per vocazione ma anche per necessità, ha riportato la guerra».
Per l’autore, uno dei maggiori nodi irrisolti di questi anni è che si assiste alla sovrapposizione di un concetto «storico-sociologico» di globalizzazione (l’ordine impostosi dopo il crollo del Muro, al cui interno un ruolo cruciale giocano eserciti, ceti politici e burocrazie) e di un concetto «teorico» più astratto e lineare, che invece coincide con l’espansione dei mercati a scapito del potere. In tal modo, però, si imputano alla globalizzazione colpe che sono da addebitare a Washington, tornando a confondere - come già era accaduto nel diciannovesimo secolo - la libertà mercantile promossa dall’anti-colonialista Richard Cobden e la politica imperiale dei governi britannici.
Per Bonanate uno dei possibili effetti della globalizzazione potrebbe comunque essere la fine delle relazioni internazionali classicamente intese e la nascita di un’inedita «politica mondiale»: dove a quel punto tutto sarebbe interno al sistema e nulla esterno. In tale quadro, lo studioso auspica che si inizi a «vivere democraticamente a partire dal livello internazionale e planetario» e che si acceda dagli odierni modelli imperfettamente democratici a forme più evolute e in grado di costruire una democrazia globale. Utilizzando anche la lezione di Norberto Bobbio, l’autore non vede alternativa tra il caos conflittuale di rapporti interstatuali basati sulla forza e l’imporsi di un «terzo super partes» in posizione sovrana.
Quando si parla però di democrazia, d’altra parte, ci si riferisce alla statualità nell’epoca della rappresentanza e, di conseguenza, al potere che ha caratterizzato la storia europea degli ultimi secoli. Essa è esattamente una modalità del dominio politico e, per giunta, l’espressione di un’egemonia che gode di una potente formula di legittimazione ed è quindi in grado d’espandersi con facilità.
Immaginare che una società internazionale integrata possa poggiare su questa ingombrante eredità della modernità occidentale (più un fattore di conflitti che di concordia già all’interno dei contesti nazionali) rischia però di produrre soltanto delusioni e frustrazioni.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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