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Golpe militare in Mauritania, alleato islamico di Usa e Israele

È il quarto tentativo dal 2003, quando un putsch fu domato in 48 ore

Roberto Fabbri

Aeroporto chiuso, truppe scelte nelle sedi dello stato maggiore, televisione e radio nazionali occupati e costretti al silenzio, camionette stracolme di soldati davanti ai ministeri e veicoli equipaggiati con batterie pesanti nelle strade della capitale. Il classico scenario del colpo di Stato militare si è ripetuto ieri a Nouakchott, unica vera città e cuore pulsante della Mauritania, Paese islamico dell’Africa Occidentale periferico (si affaccia sull’Atlantico) ma non secondario. E il perché è presto detto: è uno dei soli tre Paesi aderenti alla Lega araba (gli altri sono l’Egitto e la Giordania) a mantenere relazioni diplomatiche con Israele, oltre che buoni rapporti con gli Stati Uniti nella guerra più o meno dichiarata al terrorismo internazionale. Un obiettivo sensibile dunque, al di là del peso specifico trascurabile di uno dei Paesi più poveri del pianeta.
La cronaca del putsch è scarna. I militari sono entrati in azione alle 5 del mattino, approfittando dell’assenza del presidente Maaouya Ould Taya, volato in Arabia Saudita per partecipare ai funerali del re Fahd. Sono stati proprio gli uomini della guardia presidenziale a guidare la presa di controllo dei punti nevralgici della capitale. Poco dopo le 10 era tutto finito: si poteva udire ancora qualche raffica di mitra e qualche colpo d’artiglieria nel quartiere dirigenziale, mentre la gente s’era tappata in casa e la polizia stava a guardare. Passato lo sbandamento iniziale, quando il golpe è sembrato riuscito molti sono usciti allo scoperto e hanno sfogato la loro gioia: le poche testimonianze dirette da Nouakchott parlano di cortei di auto a clacson spiegati e di colpi d’arma da fuoco sparati al cielo. Non si hanno notizie precise su vittime ed arresti, anche se è logico che ci siano stati gli uni e gli altri.
Il capo dello Stato, che stava rientrando da Riad, si è fermato lungo la rotta a Niamey, capitale del Niger, un altro poverissimo Stato sahariano. Qui risulta che abbia trovato accoglienza in una villa messa a disposizione dal governo locale, in attesa di sviluppi. Il presidente Taya non è tipo da lasciarsi impressionare da eventi simili. Il potere lo ha conquistato nell’ormai lontano 1984, anche lui con un colpo di Stato militare. Negli anni Novanta è passato disinvoltamente dal sostegno all’Irak di Saddam Hussein a un’alleanza strategica con gli Stati Uniti, scegliendo la via della democratizzazione ma anche il riconoscimento di Israele, non facile in un Paese islamico al 99 per cento e il cui tradizionalismo sconfina nell’arcaico.
Dopo l’11 settembre la Mauritania si è caratterizzata come uno dei Paesi più decisi nella repressione dell’estremismo islamico, con particolare attenzione per le pericolose correnti salafite che hanno seminato lutti nella confinante Algeria. Il potere di Taya ha corso frequenti rischi: nel 2003 un colpo di Stato che sembrava ormai riuscito fu domato dopo due giorni di combattimenti nella capitale, e a Nouakchott sostengono che altri due tentativi dei militari siano stati soffocati lo scorso anno.
Nel pomeriggio i golpisti hanno diffuso un comunicato: vi si apprende dell’intenzione di governare la Mauritania per due anni, per restituirla poi a una democrazia descritta in modo generico, senza lasciare intendere quali amici (e nemici) si sceglierà.

Stati Uniti e Unione africana hanno già condannato il putsch e chiesto che Taya torni al suo posto.

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